La Repubblica, 2 gennaio 2015
Non possiamo vivere senza porre la fiducia in qualcuno né senza ricevere fiducia da qualcuno, dagli altri. Ognuno di noi è nato perché sentiva questa spinta ad avere fiducia nella vita, in chi lo portava in grembo, in chi lo poteva accogliere. E ciascuno è venuto al mondo proprio grazie alla fiducia originaria posta nei genitori o in chi ci ha accompagnato nella nascita. Parimenti le nostre storie d’amore sono possibili solo quando uno sa mettere la fiducia in un altro, in un’altra e da questi riceverla. La fiducia è la realtà che rende possibile il vivere e il vivere in relazione: nell’amicizia, nell’amore, nel rapporto maestro-discepolo, nella relazione medico-paziente... Se una persona non riesce a fidarsi di nessuno, è condannata all’isolamento, imprigionata in una situazione mortifera.
È proprio la fiducia che può creare il legame sociale e generare la comunità: a livello politico la mancanza di fiducia genera una stanchezza nella democrazia e quindi ne mina la credibilità, aprendo lo spazio alla barbarie. Se la fiducia oggi difetta lo si deve in particolare a un triplice disincanto, sul piano economico, politico e identitario. Il senso del vivere insieme è compromesso dalla logica del mercato che privilegia l’interesse particolare e nega l’istanza di solidarietà; la vita politica offre il triste spettacolo di uno scollamento rispetto ai cittadini e di una autoreferenzialità elettiva che genera diffidenza e inaffidabilità; l’identità collettiva è smarrita e regredisce in un appiattimento su comunanze di tipo tribale.
Dobbiamo allora porci una domanda: come mai siamo precipitati in questa situazione in cui si afferma che è meglio diffidare, diffidare sempre, diffidare di chiunque? Quali sono i fattori che hanno minato la fiducia che si era creata sulle macerie della Seconda guerra mondiale? Quella fiducia sociale che ci aveva dato la possibilità di una convivenza capace di assumere un progetto comune e di condividere una speranza?
Tra i fattori decisivi va annoverata l’illegalità crescente che si è espansa come un’epidemia, dalla quale nessun potere e gruppo sociale è restato immune. L’illegalità macroscopica, quasi sempre impunita, ha autorizzato un’illegalità quotidiana e minuta, che sembra rispondere al “così fan tutti”. Questa illegalità ha minato il senso di sicurezza e il bisogno di protezione dei cittadini, immettendo in loro una sfiducia e tentandoli, seducendoli fino a condurli a non darsi pena della collettività, a scambiare l’etica con il “fare i moralisti”, a lasciar correre... Insieme ai fattori ricordati di autoreferenzialità e di mancanza di senso del bene comune e del servizio alla polis, l’illegalità ha reso inaffidabili molti soggetti politici e le stesse istituzioni di rappresentanza democratica. I cittadini si sentono sempre più lontani dalla politica e finiscono per non partecipare più all’edificazione della polis che sembra invece sequestrata dai partiti, da forze o gruppi di potere sovente nascosti e dunque viene valutata come non possibile, ormai preda dei corrotti.
Qualcuno sostiene che viviamo già nell’epoca della post-democrazia e, a causa di questa debolezza della politica, si affermano il populismo, il sorgere del “salvatore” di turno, la smobilitazione dei corpi sociali, il conformismo e la degradazione dell’etica incapace di competere con illusioni che catturano le masse. La consapevolezza di essere cittadini di una polis comune ha ceduto il passo alla rassegnazione di essere consumatori in un mercato dopato, in cui la libera concorrenza è divenuta corsa alla sopraffazione, al dominio del più forte o del più furbo. E in questo precipitare della qualità della convivenza politica, vanno in frantumi e sono calpestate la solidarietà, l’attenzione ai deboli e alle vittime della storia.
Così i cittadini-consumatori continuano a credere ad annunci e promesse dei soggetti politici, nonostante non se ne vedano le condizioni e tanto meno i segnali di attuazione. Paure e illusioni sono fabbricate un giorno, esasperate quello successivo e dimenticate o mutate il giorno dopo ancora. Le persone sono sempre meno capaci di critica, il dibattito ragionato viene considerato una perdita di tempo e sostituito da urla tra sordi, l’incalzare di sondaggi di ogni tipo e qualità ha rimpiazzato il faticoso delinearsi di una “opinione pubblica”: così si passa d’inganno in inganno, perdendo sempre più il contatto con la realtà. Fino a quando? Sì, perché, come ci insegna la storia, a un certo momento sopraggiunge un punto di rottura in cui all’incapacità di indignarsi e di impegnarsi segue la reazione irrazionale di chi si nutre di violenza.
Allora, che fare? Si tratta ora più che mai di rischiare la fiducia a partire dalle nostre relazioni personali, di ribadire la necessità della fiducia come fondamento della vita sociale. “Camminando si apre cammino”, così avendo fiducia si fa crescere la fiducia. I dati dell’inchiesta commentata da Diamanti dovrebbero suonare per tutti come un allarme: l’assuefazione alla sfiducia nelle istituzioni, negli altri, nel futuro non fa che asfaltare la strada alla barbarie e alla violenza. Sta a noi aprire un percorso diverso, resistendo, mettendo fiducia in noi stessi, esercitandoci con convinzione ad avere fiducia negli altri e a non tradire la loro, a partire da chi ci sta accanto. Il primo passo per amare gli altri come se stessi consiste proprio nell’avere fiducia negli altri almeno come in se stessi. La fiducia va cercata alla sorgente: nelle modalità dei nostri rapporti con noi stessi, con gli altri, con il futuro, con la storia, con il fatto stesso di vivere. Sì, la fiducia nella vita è ancora possibile, è un dovere e una promessa di cui siamo debitori verso gli altri e verso noi stessi.