La Repubblica, 7 maggio 2014
NON possiamo distogliere lo sguardo dai mali profondi dell’Italia, quelli che continuano a corrodere la società. Abbiamo appena assistito all’accettazione strutturale della corruzione, visto che condannati e inquisiti non sono stati non dico almeno biasimati, ma dotati di un paracadute politico con candidature alle elezioni europee e locali. Vi è una morale da trarre da questa vicenda? Ve ne sono almeno tre. La prima riguarda il significato assunto dalle leggi in queste materie; la seconda evoca l’onore perduto della politica; la terza richiama l’impossibile ricostruzione di un’etica civile.
In tutti questi anni sono stati citati infiniti casi di politici in vista, spesso con grandi responsabilità pubbliche, che si sono prontamente dimessi per comportamenti ritenuti riprovevoli, senza che vi fosse alcuna legge che lo prevedesse. Fuori d’Italia, però. Ultima tra le tante, la notizia delle dimissioni del premier sudcoreano in relazione a un drammatico naufragio, dunque a qualcosa di estraneo alle sue dirette responsabilità, ma di fronte al quale la politica non poteva rimanere silenziosa. Dalle nostre parti, perduta da gran tempo la speranza di sane reazioni dettate dalla responsabilità politica e dalla moralità pubblica, si è stati obbligati, tra mille resistenze, a scrivere qualche norma per combattere almeno i casi più scandalosi. Ma questa scelta ha prodotto un effetto paradossale. Invece di considerare le nuove leggi come il segno di un cambiamento del giudizio collettivo sui doveri di chi esercita responsabilità pubbliche, si è cercato in ogni modo di limitarne l’applicazione; e, soprattutto, si è concluso che ormai solo i comportamenti lì previsti possano legittimare reazioni di biasimo. Vengono così derubricate, e collocate nell’area della irrilevanza, le “disattenzioni” nell’esercizio delle proprie funzioni, le ambigue reti di relazioni personali, le convenienze dirette e indirette procurate dal ruolo ricoperto, le dichiarazioni violente e razziste, e via dicendo.
È tornata così, in forme nuove, la consolidata e interessata confusione tra responsabilità penale e responsabilità politica. Quest’ultima è stata praticamente azzerata. Ogni invito a correttezza e senso di responsabilità, ogni richiesta di dimissioni occasionata da azioni socialmente censurabili e sicuramente fonte di discredito per la politica, vengono respinti con protervia: “non è questione penalmente rilevante”. Una formula frutto di miserabile astuzia, che irresistibilmente richiama l’amara ironia di Ennio Flaiano, all’indomani di uno degli scandali del passato, riguardante i terreni sui quali venne poi costruito l’aeroporto di Fiumicino: «scaltritosi nel furto legale e burocratico, a tutto riuscirete fuorché ad offenderlo. Lo chiamate ladro, finge di non sentirvi. Gridate che è un ladro, vi prega di mostrargli le prove. E quando gliele mostrate: “Ah” dice “ma non sono in triplice copia!”».
In tempi di dilaganti spinte verso revisioni costituzionali, si deve malinconicamente concludere che una riforma è già stata realizzata con la pratica cancellazione dell’articolo 54 della Costituzione. Nella prima parte di questo articolo si dice qualcosa che può sembrare scontato: “tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Costituzione e di osservarne la Costituzione e le leggi”. Ma leggiamo le parole successive. “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina e onore”. Il bel linguaggio della Costituzione non dovrebbe lasciare dubbi. Chi svolge funzioni pubbliche, dunque i politici in primo luogo, non possono trincerarsi dietro l’affermazione di aver rispettato la legge penale, dunque
di non aver commesso alcun reato. A tutti loro è imposto un “dovere” costituzionale ulteriore, indicato con parole forti, non equivoche — disciplina e onore. Nel momento in cui questo dovere non viene rispettato, i politici perdono l’onore, e con essi perde l’onore la politica. Di questo nessuno si preoccupa più, anzi ogni oligarchia, corporazione, grumo d’interesse fa quadrato intorno ai suoi “disonorati”, alza la voce e così certifica la concreta cancellazione di quella norma della Costituzione. Se così fan tutti, perché meravigliarsi se in una riunione sindacale della polizia si applaudono i condannati e se rimangono senza eco i richiami all’onore provenenti dalla moglie del commissario Raciti assassinato da un ultra calcistico? Ma il riferimento all’onore sembra che abbia diritto di cittadinanza solo in questo ambito. L’Italia, infatti, continua a essere percorsa da condannati illustrissimi continuamente applauditi, che stipulano patti sul futuro del paese.
In tempi di proclamata volontà di “innovazione” proprio di questo si dovrebbe tenere grandissimo conto. Il vuoto della politica, e la sfiducia che così si alimenta, trovano le loro radici profonde proprio nella scomparsa di un’etica pubblica. E invece cadono nell’indifferenza politica quei veri bollettini di guerra che, da anni ormai, sono divenute le cronache di giornali e televisioni, che registrano impietosamente, ma purtroppo anche inutilmente, vicende corruttive grandi, medie e piccole, testimonianza eloquente della devastazione sociale. Il ceto politico distoglie lo sguardo da questa realtà scomoda. E nessun richiamo sembra in grado di scuoterlo. Quando un bel pezzo dell’attuale classe dirigente è convenuta in pompa magna ad una udienza papale, ha dovuto ascoltare una dura reprimenda del Papa proprio sul tema della moralità pubblica. Ma pare che l’unica sua reazione sia stata quella dello sconcerto di fronte alla mancanza di ogni cordialità da parte del Pontefice alla fine di quell’incontro. Così, anche questa vicenda è stata rapidamente archiviata, e tutti sono tornati alle usate abitudini, senza dare il pur minimo segno di qualche intenzione di voler dare un’occhiata al dimenticato
articolo 54.
Ma una politica che ha dimenticato l’ onore, ritenuto forse un inaccettabile segno del moralismo dei costituenti, quale prospettiva può offrire per una azione concreta di ricostruzione dell’etica civile?