Ci accontentiamo davvero di poco i questi tempi di tormento. Eppure, dobbiamo soffiare su ogni fiammella che appare all'orizzonte. Articoli di Stefano Folli, Andrea Fabozzi e Andrea Padellaro,
La Repubblica il manifesto e Il Fatto Quotidiano, 2 gennaio 2016
il manifesto
QUELLO CHE MATTARELLA NON DICE
di Andrea Fabozzi
«Un discorso a-renziano che non incrocia l’attività del governo, innovando profondamente rispetto alla stagione di Napolitano. E con una clamorosa omissione: il presidente non cita mai la riforma costituzionale»
L’anno vecchio che secondo il bilancio del presidente del Consiglio «è andato meglio del precedente e meglio delle nostre previsioni» consegna invece nel discorso del presidente della Repubblica una lunga lista di problemi, antichi eppure inattaccabili dalle
slide.
Il lavoro, che «manca ancora a troppi» giovani, quarantenni e cinquantenni, donne. Le diseguaglianze, che «rendono più fragile l’economia» e le discriminazioni che «aumentano le sofferenze di chi è in difficoltà». L’eterna questione meridionale. L’illegalità di «chi corrompe e chi si fa corrompere», di chi «ruba, inquina, sfrutta, in nome del profitto calpesta i diritti più elementari». E tra le illegalità il presidente della Repubblica sottolinea l’evasione fiscale, quella contro la quale secondo il presidente del Consiglio «abbiamo fatto passi in avanti da gigante»; diventa nel testo letto da Sergio Mattarella l’unico punto esclamativo: «L’evasione fiscale e contributiva in Italia ammonta a 122 miliardi di euro. 122 miliardi! Gli evasori danneggiano la comunità nazionale e i cittadini onesti».
Nell’elenco dei problemi entra anche l’inquinamento, tema di cronaca affrontato politicamente: «L’impegno delle istituzioni deve essere in questo campo sempre maggiore. Si può chiedere ai cittadini di limitare l’uso delle auto private, ma, naturalmente, il trasporto pubblico deve essere efficiente. E purtroppo non dovunque è così». Due giorni prima il presidente del Consiglio aveva scaricato anche quest’emergenza sui gufi: «Siamo passati da piove governo ladro a non piove governo killer».
Un discorso non certamente antirenziano il primo di capodanno di Sergio Mattarella, bensì a-renziano: la proposta di una realtà tenacemente diversa da quella raccontata ogni giorno e con ogni mezzo dal capo del governo. Ma in una chiave per nulla polemica. E con una modalità che - fatte le dovute differenze di ruolo, formazione, età - può persino essere avvicinata a quella consueta per Renzi: la posa informale, non ex cathedra, il rivolgersi direttamente ai cittadini e non ai palazzi della politica.
E il fatto che il presidente abbia scelto di non incrociare per niente l’attività di governo - in questo innovando profondamente rispetto alla lunga stagione di Napolitano - è stato certamente apprezzato da palazzo Chigi. Renzi lo ha prontamente sottolineato, lodando un «discorso bello e diretto al cuore degli italiani», quasi un messaggio sentimentale. Al contrario l’opposizione ha potuto apprezzare l’insistenza sui «problemi irrisolti» che, come ha detto il forzista Paolo Romani, «è un monito al governo che ha precise responsabilità». «Discorso leale», si è invece compiaciuto il presidente dei senatori Pd Zanda; per i renziani il fatto che il capo dello stato abbia scelto di tenersi lontano da ogni contrapposizione con il governo è ormai una solida certezza.
Il che non significa automaticamente che sul Quirinale si condivida ogni passo della strategia renziana. Qualche divergenza può ben esserci. In coerenza con il minimalismo di Mattarella, lo suggerisce stavolta un’omissione più che un’affermazione, un’omissione assai significativa. Malgrado il presidente della Repubblica abbia più volte nel corso dell’anno sostenuto la «grande riforma» costituzionale voluta dal governo, anche deludendo qualche avversario del premier, giovedì sera il presidente ha del tutto evitato l’argomento. Scelta clamorosa, essendo il 2016 l’anno in cui terminerà il lungo percorso di revisione costituzionale, con il referendum confermativo.
La parola più (ab)usata nello storytelling renziano, la parola «riforma», non è comparsa neanche una volta nei venti minuti del messaggio di fine anno. Se un referendum Mattarella ha citato è stato quello istituzionale del 1946 - «nel 2016 celebreremo i settant’anni della Repubblica» -; se una volta ha parlato della Costituzione non è stato per invocarne il necessario aggiornamento ma per descriverla come «non soltanto un insieme di norme ma una realtà viva di principi e valori». E se Renzi ha presentato l’ultimo passaggio della riscrittura della Carta come un plebiscito sulla sua persona, il capo dello stato ha compreso nel suo discorso un unico appello, il classico “monito” del Quirinale: «Tutti siamo chiamati ad avere cura della Repubblica».
La Repubblica
IL DOPPIO DISCORSO DEL PRESIDENTE
di Stefano Folli
La novità di questo Capodanno è che il discorso del Capo dello Stato era in realtà diviso in due parti. Una è quella che gli italiani hanno ascoltato la sera di San Silvestro in televisione. Ed il messaggio rivolto ai cittadini, un tempo si sarebbe detto alla gente comune. Un messaggio la cui caratteristica era l’educazione civica, l’invito ad aver «cura della Repubblica». L’idea che esistono i doveri accanto ai diritti. L’incoraggiamento a tener duro perché qualche segnale positivo s’intravede.
L’altra metà del discorso era rivolta all’insieme della classe dirigente, ma non è stata pronunciata il 31 bensì qualche giorno prima, in occasione della cerimonia degli auguri al Quirinale. Un intervento più formale, come è logico, nessuna poltroncina e nessuna stella di Natale sullo sfondo. Quel giorno Mattarella ha parlato all’establishment del Paese e ha toccato temi meno facili. Ha usato quel suo linguaggio un po’ criptico, ma di solito non oscuro, per chiedere che sia rispettato il complessivo equilibrio delle istituzioni. E ha citato in modo specifico il dramma delle banche, ammonendo fra le righe a fare attenzione. Il rischio di compromettere delicati assetti, con conseguenze gravi per il cosiddetto “sistema Paese”, è tutt’altro che remoto.
Sarà un caso, ma della commissione d’inchiesta parlamentare (dotata, come è noto, di poteri d’inchiesta equivalenti a quelli di cui gode la magistratura) non si parla quasi più. E lo stesso premier Renzi, nella conferenza stampa di fine anno, si è ben guardato dall’insistere su questo tasto. La prudenza è d’obbligo. Ecco allora il senso dei due interventi del presidente della Repubblica. È necessario leggerli o ascoltarli insieme per cogliere il loro senso generale. Nel primo discorso Mattarella ha parlato da garante istituzionale. Ha suggerito cautela sulle banche e quindi anche sulla Banca d’Italia: non per lasciare impuniti coloro che hanno commesso eventuali abusi, bensì per evitare passi falsi e conseguenti rischi di destabilizzazione. Un conto è la ricerca delle responsabilità, un altro è la rincorsa al consenso immediato.
La sera di San Silvestro il presidente si è rivolto invece a chi non ha un lavoro e lo cerca senza trovarlo; a chi è disorientato perché non è sicuro della ripresa economica; a chi teme per la propria sicurezza nella nuova stagione del terrorismo («di matrice islamista », ha voluto precisare il Capo dello Stato). Un discorso rivolto ai giovani e alle donne, alcune delle quali citate per nome fra le eccellenze italiane. Mattarella ha una sua cifra espressiva pacata e severa che certo non fa di lui un trascinatore. Ma ha la capacità di parlare senza ricorrere alla retorica, con una naturale vocazione alla concretezza e nel rifiuto dell’enfasi.
Non ha bisogno di blandire il governo e nemmeno di citarlo: si muove su un terreno diverso da quello proprio dell’esecutivo e infatti nessuno può immaginare che l’attuale inquilino del Quirinale viva una qualsiasi tentazione “presidenzialista”. Al tempo stesso trasmette l’impressione di un Capo dello Stato che agisce molto dietro le quinte. In primo luogo con la conoscenza dei problemi e dei vari “dossier”, poi con il controllo delle leggi e infine esercitando una persuasione discreta sui diversi protagonisti della vita pubblica. È un ruolo e un compito in cui Mattarella sembra ormai essersi calato, dopo il necessario apprendistato istituzionale.
Ecco perché il messaggio di Capodanno è piaciuto a molti. Fino a raccogliere un parziale giudizio positivo persino dal leghista Salvini, il quale ha dovuto ammettere che sulla questione dell’immigrazione il cattolico Mattarella, l’uomo della solidarietà e dell’accoglienza, ha detto parole ferme circa il dovere di allontanare dal territorio nazionale chi non ha i requisiti per restarvi. Ma per capire bene quello che il capo dello Stato ha voluto dire agli italiani bisogna considerare insieme i due momenti: il discorso alle classi dirigenti e quello al paese reale. Incollati insieme i pezzi, il doppio intervento restituisce forse per la prima volta la cifra autentica e definitiva di questa presidenza.
Il Fatto Quotidiano
IL PRESIDENTENON URLAMA ALZA LA VOCE
di Andrea Padellaro
Questa volta Beppe Grillo ha avuto troppa fretta nel definire “un ologramma” Sergio Mattarella, perché se prima di registrare il suo contromessaggio avesse avuto la pazienza di ascoltare il messaggio del capo dello Stato, vi avrebbe trovato molti temi familiari ai Cinquestelle. Infatti, era dai tempi di Carlo Azeglio Ciampi, e forse anche di Sandro Pertini, che al Quirinale, nell’ultimo giorno dell’anno, non si alzava la voce (tenendola bassa com’è nello stile del nuovo inquilino) contro le metastasi del malaffare che stanno divorano l’Italia.
L’evasione fiscale giunta a livelli «inaccettabili»: 122 miliardi, come ha ripetuto due volte vista l’enormità dello scandalo. «L’illegalità di chi ruba, di chi corrompe e di chi si fa corrompere». L’attacco frontale contro «chi sfrutta, e chi in nome del profitto calpesta i diritti più elementari, trascurando la sicurezza e la salute dei lavoratori». La «riconoscenza» ai magistrati e alle forze dell’ordine che conducono «una lotta senza esitazioni contro le mafie». Che differenza di linguaggio dal suo predecessore Giorgio Napolitano, che parlava dei magistrati preferibilmente quando c’era da sgridarli per il loro «protagonismo». Non è forse su queste battaglie che il M5S ha raccolto il suo crescente successo elettorale e costruito l’unica opposizione credibile alla vecchia partitocrazia?
Perché non rivendicarle, invece che sbattere Mattarella nel mazzo abusato del «sono tutti uguali»? Quanto a Matteo Renzi, al di là degli apprezzamenti rituali può dirsi davvero soddisfatto da un discorso che tocca i nervi scoperti di un’azione di governo che l’evasione fiscale pensa di combatterla alzando a tremila euro il limite del pagamento in contanti? Impedendo la tracciabilità dei versamenti in nero, che rappresentano il mare, anzi l’oceano dell’evasione sommersa? Dall’attacco di Mattarella contro una certa imprenditoria rapace esce poi malconcio un altro concetto caro al premier, quello secondo cui basta creare posti di lavoro, non importa come e a che prezzo, per meritarsi la medaglietta di Palazzo Chigi.
Nessun antagonismo, ci mancherebbe altro, con il governo Renzi a cui ha riconosciuto (senza mai nominarlo) il miglioramento della condizione economica. Però, rispetto al trionfalismo sui mirabolanti risultati del Jobs act, il presidente preferisce ricordare come i troppi giovani senza lavoro rappresentino per la nazione un disastro morale, prima ancora che sociale. Infine, la Costituzione. Non una parola sulle cosiddette riforme e sul referendum confermativo che Renzi usa in modo ricattatorio per farsi campagna elettorale. Per l’uomo del Colle, invece, «rispettare le regole vuol dire attuare la Carta, realtà viva di principi e valori». Messaggio coerente con la sua storia di cattolico di sinistra, quello di Mattarella non può esser il solito pistolotto natalizio ma deve tradursi in un impegno solenne con il Paese. Poiché il presidente rivendica, giustamente, il suo ruolo di arbitro lo aspettiamo alla prova dei fatti: quella delle leggi sbagliate da respingere e delle leggi giuste da pretendere.