«» Il manifesto, 3 maggio 2016
Renzi ci informa che nel giorno del ringraziamento i tacchini sono felici. Gli crediamo sulla parola. E forse, per come sono andate le cose, possiamo accettare anche l’idea che i senatori in carica siano tacchini. Ma che fossero felici nel cancellare il senato, dubitiamo assai. Il lancio della campagna per il sì nel referendum costituzionale ci ha dato un discorso in puro stile renziano, fatto di omissioni, bugie, pubblicità ingannevole, battute.
È omissione celebrare un parlamento che si è messo a correre. Renzi omette di ricordare che ha corso una maggioranza drogata dai numeri posticci di un sistema elettorale fulminato da una dichiarazione di illegittimità costituzionale. Che solo grazie a quei numeri le sue riforme hanno visto la luce. Che una minima decenza costituzionale avrebbe richiesto nuove elezioni con una legge depurata da quelle illegittimità. Che nonostante tutto questo solo il rinforzo dei voltagabbana ha consentito alla fine di radunare per le riforme una maggioranza occasionale e raccogliticcia. Che se anche vincesse il referendum, questo potrebbe consolidare lui nella poltrona di palazzo Chigi, ma non consoliderebbe una Costituzione delegittimata e divisiva per il paese.
È bugia prospettare la riforma come necessaria per superare un bicameralismo paritario che nemmeno i costituenti del 1948 volevano. Al contrario, quella fu una scelta consapevole, che esprimeva gli equilibri del tempo. E in ogni caso il punto di contrasto vero nel dibattito odierno non è mai stato il bicameralismo differenziato, ma la natura non direttamente elettiva del nuovo senato. Si censura in specie la scelta di iniettare nel massimo livello di rappresentanza nazionale un ceto politico di bassa qualità, segnato da clientele, corruzione, relazioni pericolose. Basta pensare che, se non fosse scoppiato il caso giudiziario e mediatico a tutti noto, un Graziano sarebbe stato probabilmente il tipico candidato in pole position per un seggio senatoriale. Con tutte le prerogative connesse alla carica, tra cui in primis la tutela costituzionale per arresti, perquisizioni, intercettazioni. Con quali conseguenze sulle inchieste è facile immaginare.
È pubblicità ingannevole affermare di essere arrivato a Palazzo Chigi attraverso una grande esperienza di popolo. Sembra suggerire un’onda di irresistibile consenso elettorale. Più modestamente, c’è arrivato attraverso le primarie con cui ha messo in minoranza gli iscritti al PD con il voto dei non iscritti. Ha così creato le premesse per chiudere nell’angolo la minoranza interna, e per attuare la manovra di palazzo che ha politicamente ucciso il governo Letta.
È ancora pubblicità ingannevole che il paese esca dalla palude. Le cifre della crisi infinita rimangono incerte, come la deflazione o i balletti sui posti di lavoro ampiamente dimostrano. La qualità di servizi fondamentali come l’istruzione o la sanità cala. Le diseguaglianze territoriali aumentano, e a nulla valgono gli spot preelettorali di Renzi. La corruzione dilaga, e sul governo pesa la resistenza di chi proprio non vuole saperne di mandare i corrotti in galera e di tenerceli. Mentre l’arte del governare viene ricondotta – come negli anni della peggiore DC, e con poche eccezioni – alla sapiente scelta di sodali, amici, sostenitori, fiancheggiatori a vario titolo.
Tuttavia, anche i Renzi passano. Il problema vero è ridurre i danni che prima di andarsene avrà prodotto. Tra questi, la riforma costituzionale è tra i più gravi, e difficili da riparare. Renzi chiede un paese che dice sì, ma in realtà vuole un popolo di yes men, a partire dal referendum. Bisognerà dimostrargli col voto che la richiesta è irricevibile.