Domenica scorsa, cinque grandi Comuni italiani hanno rinnovato la loro amministrazione e tre di essi hanno eletto sindaci nuovi. Nella Capitale della Repubblica, Roma, e nella prima Capitale dell’Italia unitaria, Torino, i cittadini hanno eletto per la prima volta sindaci espressi non da partiti o raggruppamenti tradizionali, ma dal Movimento 5 Stelle. In queste città, così come a Napoli, le maggioranze locali non sono allineate col governo centrale, da cui dipendono tuttavia flussi di risorse importanti per il normale funzionamento delle città. Quali rischi corrono i nuovi sindaci? È possibile in linea teorica che il governo nazionale riduca, nei provvedimenti di finanza pubblica, i trasferimenti alle amministrazioni locali? E può farlo in maniera asimmetrica, privilegiando i governi locali amici e danneggiando quelli avversari? Può chiudere discrezionalmente alcuni rubinetti?
La risposta non è netta e richiede di distinguere in base alle tipologie di trasferimenti dal governo: quelli ordinari, cosiddetti di parte corrente, che sono finalizzati a contribuire alle spese di funzionamento delle amministrazioni, appaiono difficilmente modulabili su basi discrezionali. Da questo punto di vista i nuovi sindaci dovrebbero stare relativamente tranquilli. Anche quando i governi sono intervenuti in corso d’opera nell’ultimo quinquennio per tagliare risorse già assegnate ai Comuni, essi hanno dovuto concordare con la Conferenza Stato-Città i criteri di ripartizione della riduzione.
Vi è un solo caso in cui non lo hanno fatto, decidendo a monte un criterio di ripartizione, comunque oggettivo, e la Consulta lo ha dichiarato incostituzionale poche settimane fa. Le autonomie locali sono tutelate in particolare da due articoli della Costituzione, che vanno letti congiuntamente: l’art. 118, secondo comma, per il quale “i Comuni, le Province e le Città metropolitane sono titolari di funzioni amministrative proprie e di quelle conferite con legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze” e l’art. 119 il quale stabilisce che “i Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa. (…) hanno risorse autonome. Stabiliscono e applicano tributi ed entrate propri (…). Dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio”. È inoltre previsto un fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale. L’art. 119 stabilisce infine che “le risorse derivanti dalle fonti di cui ai commi precedenti consentono ai Comuni, alle Province, alle Città metropolitane e alle Regioni di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite”.
La risposta è negativa e si ritrova proprio nei tagli attuati dai governi a danno delle autonomie locali durante il processo di risanamento dei conti pubblici che ha fatto seguito alla grande recessione dell’anno 2009. A partire dal 2011 la crisi del nostro debito sovrano ha spinto i governi ad accelerare il riequilibrio della finanza pubblica, imponendo alle autonomie locali rigidi vincoli, i quali avrebbero dovuto contribuire al pareggio di bilancio dell’Italia già dal 2013.
Il problema è che gli enti locali hanno dovuto dare comunque il loro contributo ma il pareggio di bilancio non c’è stato, né poteva esserci, tanto che ancora oggi siamo su un disavanzo pubblico pari al 2,6% del Pil. Qual è stato il contributo delle amministrazioni locali (Comuni, Province e Regioni, sanità compresa) al risanamento effettivo? Un semplice calcolo: dal suo livello record del 2009 al 2015 il disavanzo pubblico si è ridotto di 40,6 miliardi. Quanti fondi statali hanno perso nel periodo tutte le amministrazioni locali? Esattamente 30,6 miliardi, dato che i trasferimenti statali di parte corrente sono diminuiti di 23,2 miliardi e quelli in conto capitale di 7,4 miliardi. Inoltre le amministrazioni locali hanno migliorato il loro saldo economico di 7,9 miliardi, portandosi complessivamente in attivo. Il loro contributo totale al miglioramento del disavanzo pubblico è pertanto di 38,5 miliardi, corrispondenti al 95% dei 40,6 miliardi di miglioramento complessivo dell’Italia. Ovviamente le funzioni svolte non sono diminuite, la Costituzione non è stata rispettata, dato che le amministrazioni locali si son fatte carico del 95% del risanamento totale del Paese, né le diverse associazioni che le raggruppano sono andate oltre deboli e poco efficaci proteste verbali.
Quanti fondi statali hanno perso nel tempo le 5 grandi città che domenica hanno votato? Confrontando coppie di anni conviene limitarci ai trasferimenti di parte corrente, data la molto maggiore variabilità di quelli in conto capitale: Milano ha perso il 66% dei trasferimenti statali tra il 2011, anno in cui si è accentuata la pressione sui comuni, e il 2015; Bologna il 70%; Torino il 36%; Roma il 40%; Napoli il 24%. Le 5 città messe assieme hanno perso nel 2015 quasi un miliardo rispetto al 2011, dato che i fondi statali correnti complessivi sono diminuiti da 2,3 a 1,35 miliardi: Roma ha perso più di 400 milioni, Milano quasi 250, Torino 100, Napoli quasi 130, Bologna quasi 80. Difficilmente, partendo da queste cifre, i nuovi sindaci possono temere ulteriori tagli, ma avranno molta difficoltà a governare proprio a causa della penuria di risorse già in essere. Ma forse è proprio per questo che sono stati eletti e i loro predecessori rimossi.