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Nadia Urbinati
Il coraggio di una nazione
26 Agosto 2009
Scritti 2009
Che cosa realmente significa quella parola, “nazione”, in nome della quale si dicono tante sciocchezze. La Repubblica, 26 agosto 2009

A partire dalla Rivoluzione francese, la nazione è stata concepita come il corpo sovrano rappresentato nell´assemblea costituente e poi nel Parlamento. La nazione, prima ancora di assumere connotazioni etniche o culturali, è stata concepita come l´unità giuridica e politica delle donne e degli uomini che risiedono stabilmente in un paese e sottostanno alle leggi dello Stato (per i rivoluzionari francesi un anno di residenza era sufficiente ad acquisire il diritto di voto). Anche se non tutti i costituenti francesi concepirono l’inclusione nel corpo nazionale come un diritto universalmente distribuito, tuttavia dal momento in cui l’imputazione individuale di responsabilità di fronte alla legge e il consenso espresso con il voto sono diventati i criteri legittimanti, la lotta per il diritto di voto e l’inclusione nella cittadinanza ha segnato la storia della democratizzazione nei paesi moderni.

A questa tradizione appartiene Giuseppe Mazzini, la cui idea di nazione è stata squisitamente politica (egli ha radicalmente distinto la nazionalità, che concepiva come autodeterminazione democratica, da nazionalismo che criticava come un’ideologia non politica e pericolosamente egoistica), ma anche pensatori moderati cattolici come Antonio Rosmini, Vincenzo Gioberti e Cesare Balbo e soprattutto teorici liberali-federalisti come Carlo Cattaneo e Carlo Pisacane. La differenza tra loro riguardava essenzialmente l’interpretazione dei criteri e dell’estensione dell’inclusione: per Mazzini, Cattaneo e Pisacane questi criteri erano idealmente universali e democratici, per Rosmini, Gioberti e Balbo invece, come per molti liberali moderati dell’Ottocento, valeva la capacità censitare come condizione per l’inclusione politica.

Comunque sia, da allora la questione dell’inclusione nel corpo della nazione (e per questa ragione la definizione dei requisiti e dei criteri che denotano la nazione) è diventata oggetto fondamentale delle distinzioni ideologiche e della stessa lettura della storia italiana e ora anche di quella europea. Un tema che è ancora oggi in primo piano. A partire dalle lotte risorgimentali, e soprattutto dall’unità nazionale, le forme di appartenenza alla nazione sono state l’oggetto di conflitti e di trasformazioni. La storia dell’unità italiana può essere interpretata come la storia delle battaglie per l’inclusione nel corpo politico ovvero per l’estensione dei diritti politici oltre che di quelli civili e, poi, sociali: nell’Ottocento furono le classi lavoratrici e contadine a rivendicare l’appartenenza alla nazione politica; nei decenni della democratizzazione che ha vinto sul fascismo, sono state le donne, i giovani e coloro che appartenevano a minoranze linguistiche e religiose; oggi, nell’Italia post-industriale sono gli immigranti che giungono nel nostro paese per vivere e lavorare a chiedere l’inclusione.

Il tema dell’inclusione non riguarda semplicemente il diritto di voto. Esso concerne tanto l’interpretazione dei diritti individuali fondamentali e della tolleranza quanto la stessa riformulazione dell’identità del corpo sovrano e degli individui che chiedono di farne parte. L’inclusione è una rivendicazione di dignità e di responsabilità, ovvero di cittadinanza in senso pieno e non solo giuridico; è una rivendicazione di rispetto e riconoscimento del diritti di ciascuno di praticare la propria religione, vivere la propria scelta sessuale, coltivare la propria tradizione culturale (l’Italia è essa stessa uno straordinario esempio storico di unità nella differenza culturale).

La definizione della cittadinanza, i suoi caratteri e la costellazione di diritti che la qualificano, sono l’oggetto del contendere nelle questioni di inclusione. Per questa ragione, ogni studio sulla nostra storia nazionale dovrebbe diventare anche uno studio sulle trasformazioni di questa identità e delle forme di appartenenza ad essa. La lotta delle minoranze (pensiamo in primo luogo alle minoranze nazionali tedesche e francesi o a quelle sarde e siciliane, ma anche alle minoranze religione, come gli ebrei, gli evangelici o i valdesi, e oggi i mussulmani) ha non solo portato a ridefinire in maniera non intollerante la nazione italiana, ma ha anche contribuito a consolidare quel processo di autonomie regionali che ha cambiato radicalmente l’ordine politico e amministrativo del nostro paese. Egualmente: la lotta dei lavoratori e delle donne per l’inclusione nel corpo politico ha aperto la strada alla rivendicazione e conquista di diritti prima sconosciuti (la terza generazione di diritti, ovvero i diritti sociali e sindacali) e cambiato la stessa identità dello Stato da semplice sistema legal-coercitivo a Stato sociale. Infine, la natura democratica dello Stato nazionale così come è emersa da queste lotte ha inaugurato la sfida che ci è più vicina: quella di una politica democratica delle frontiere e quindi dell’ospitalità e della tolleranza; infine, e soprattutto, dell’inclusione degli immigrati nella nazione italiana.

Non è esagerato dire che la messa in moto con il Risorgimento della politica di autodeterminazione nazionale e democratica ha avuto e ha effetti trasformativi della nostra identità collettiva che vanno ben oltre gli eventi storici ottocenteschi e le stesse intenzioni dei protagonisti che li hanno animati, promossi e guidati. La nazione quindi come trama della storia politica e civile passata e presente – un’occasione per ripensare criticamente a quello che siamo e vogliamo, o non vogliamo, essere. Come ha scritto Adriano Prosperi sulla Repubblica di qualche giorno fa, «è sulla base di questa consapevolezza storica che oggi si può dare un senso alla celebrazione dell’unità d’Italia guardando avanti, a una nuova e piú coraggiosa integrazione».

t/article/articleview/13708/1/351

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