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Salvatore Settis
Il comò che inaugura la svendita dei beni culturali
16 Novembre 2009
Beni culturali
Un pericolosissimo precedente, che apre la strada alla liquidazione di rilevanti beni comuni. La Repubblica, 16 novembre 2009

Nuova spallata al Codice dei Beni Culturali, con l’aggravante di conflitti interni al ministero. Dopo le dismissioni di Patrimonio Spa, dopo sanatorie e condoni edilizi e ambientali, dopo il rinvio delle norme di tutela del paesaggio, dopo le deroghe e i trucchi del "piano-casa", è il turno del patrimonio mobile. Il casus belli è (per ora) uno splendido comò del Settecento, opera di Antoine-Robert Gaudreaus, ebanista del re di Francia Luigi XV (valore dichiarato 15 milioni di euro). È un mobile di altissima qualità le cui tracce in Francia si perdono nel 1794, finché rispunta a Roma verso il 1980, e viene immediatamente vincolato dalla Soprintendenza. Altri mobili francesi di tal pregio raggiunsero le corti italiane, per esempio Parma (una figlia di Luigi XV andò sposa al duca Filippo di Borbone), anzi uno assai simile è al Quirinale. Non c’è da stupirsi che un pezzo come questo sia stato vincolato pur essendo di proprietà privata. Il Codice dei Beni Culturali, come già la legge Bottai del 1939, inserisce fra i beni culturali vincolabili «le cose mobili e immobili che presentano interesse artistico particolarmente importante» di proprietà privata (art. 10).

Che la commode sia stata prodotta da un artista francese, non importa: la legge italiana si fonda sui caratteri intrinseci delle opere da tutelare, e non sulla nazionalità, l’etnia o il sangue degli artisti che le hanno prodotte. Perciò sbalordisce che l’istanza di rimozione del vincolo, avanzata sin dal 1999 e più volte respinta dal ministero dei Beni Culturali, sia stata ora accolta con una motivazione giuridicamente insussistente: il mobile non apparterrebbe al patrimonio storico-artistico italiano in quanto di produzione francese. Più ancora stupisce la procedura: il 6 luglio il direttore generale per le Belle Arti ha chiesto il parere dell’ufficio legislativo del ministero, che ha prontamente risposto ribadendo la legittimità del vincolo sulla base di valutazioni di merito e di diritto; ma senza nemmeno citare questo parere, il direttore generale ha annullato il vincolo (1 ottobre). Doppiamente giustificati, dunque, tanto il ricorso contro l’annullamento avanzato da Italia Nostra quanto l’interrogazione alla Camera presentata dall’on. Giovanna Melandri.

Una motivazione come quella del decreto di annullamento scavalca di molto la commode e i suoi proprietari recenti (fra cui Edmond Safra, il finanziere di origine libanese ucciso a Monaco in circostanze misteriose nel 1999), anzi spalanca un abisso, affermando un principio che rischia di estendersi a tutte le opere di artisti stranieri presenti in Italia. Saranno esportabili i quadri di artisti portoghesi, fiamminghi, provenzali, catalani presenti nelle nostre chiese, collezioni e musei? Non fanno parte del patrimonio artistico italiano i van Dyck di Genova, i Rubens di Mantova e di Roma, l’Innocenzo X o il Francesco I d’Este di Velázquez? Diventeranno ipso facto esportabili le centinaia di arazzi fiamminghi in musei, chiese, case e collezioni private? Dovremmo disfarci anche dei bronzi di Riace, visto che sono indubbiamente opera di artisti greci? E il grande modello per il monumento a Innocenzo XI in San Pietro (1701), premiato un mese fa come la più bella scultura della Biennale dell’antiquariato a Firenze (e a quel che pare non ancora vincolato), è forse esportabile, dopo secoli in casa Odescalchi, solo perché l’autore, Pierre-Étienne Monnot, non era italiano ma francese?

L’annullamento del vincolo della commode fa di peggio: onde consentirne l’esportazione, si appella alla normativa sulla circolazione dei beni negli stati dell’Unione europea. Ora, si sa che sul patrimonio artistico le leggi dei singoli Stati membri divergono profondamente: la tradizione di tutela, tipica dell’Italia o della Grecia, si contrappone alla deregulation di Stati (come la Gran Bretagna), che non per niente sono il paradiso dei mercanti d’arte. Ma la circolazione dei beni di pertinenza italiana all’interno della Comunità non può includere il patrimonio artistico senza violare l’art. 9 della nostra Costituzione, che è sovraordinato a qualsivoglia convenzione europea. Come ha scritto Giuseppe Severini, lo statuto giuridico dei beni artistici nell’ordinamento italiano «fa eccezione ai principi generali della piena proprietà e del libero commercio» (così l’art. 42 Cost.). La disciplina della tutela, anche dei beni di proprietà privata, si impernia sulla priorità del pubblico interesse, che si esprime mediante la «dichiarazione di interesse culturale particolarmente importante» prevista dal Codice. Questa la strada sempre seguita dal ministero, e ribadita poche settimane fa dall’ufficio legislativo. Demolirla in nome del libero commercio, anche per una sola commode, apre una falla pericolosissima, su cui si avventeranno come avvoltoi mercanti e legulei, presto in caccia di opere "esportabili perché non italiane" su cui speculare. La domanda è: questa spallata al Codice è un incidente di percorso, o segnala all’interno del ministero l’esistenza di un "partito" votato allo smantellamento delle norme di tutela? C’è davvero qualcuno che vuol rinunciare alla gloriosa cultura italiana della tutela in nome di un immiserito neoprovincialismo?

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