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Massimo Villone
Il comando populista a volte non basta
15 Novembre 2014
Articoli del 2014
«Chi comanda in Italia? Tagliati i corpi intermedi, manomessa la Costituzione, respinto il dissenso e il pluralismo, governare diventa difficile. Specialmente se cresce il malessere sociale». Il manifesto, 12 novembre 2014

«». Il manifesto

Alla fine, chi comanda in Ita­lia? Uno, tutti, o nessuno? La domanda ci tor­menta da quando Renzi ha con vee­menza negato che ci sia un uomo solo al comando. Ma può acca­dere che l’uomo solo al comando ci sia, e tut­ta­via non comandi alcunché.

Il capi­tolo Ue si è chiuso senza grandi risul­tati per l’Italia, e le scher­ma­glie ver­bali che con­ti­nuano – l’ultima con Junc­ker – sono puro tea­tro. I trion­fa­li­smi gover­na­tivi sono stati rapi­da­mente spenti non da gufi e par­ruc­coni, ma dalle valu­ta­zioni Istat e Ban­ki­ta­lia. Le misure messe in campo non daranno risul­tati impor­tanti per la cre­scita, e soprat­tutto non ci saranno miglio­ra­menti in tempi brevi. Chi tiene la barra vuole cam­biare rotta, ma il timone non risponde.

E allora chi comanda, a chi? A nulla ser­vono gli inter­venti volti a con­cen­trare sulle stanze di Palazzo Chigi stru­menti di con­trollo appa­rente, come si fa quando si vuole ripor­tare la diri­genza pub­blica — con la riforma della Pub­blica ammi­ni­stra­zione — sotto l’ombrello della pre­si­denza del con­si­glio. Certo può ser­vire a raf­for­zare il pre­mier e la cer­chia a lui più vicina, inde­bo­lendo ancora un con­si­glio dei mini­stri popo­lato di esan­gui cori­sti. Ma è un potere spic­ciolo per l’uomo al comando che non comanda.

Inol­tre, Renzi non sem­bra con­si­de­rare che non basta il mero diniego, per quanto forti siano gli accenti, a riget­tare l’accusa di ecces­siva per­so­na­liz­za­zione. Né basta il con­senso di sedi di par­tito che non hanno più alle spalle un’organizzazione radi­cata negli iscritti e nel ter­ri­to­rio, sono dro­gate da sele­zioni popu­li­sti­che del ceto poli­tico come le pri­ma­rie aperte, vedono la mino­ranza interna ridursi alla pas­siva accet­ta­zione della lealtà alla ditta. Né basta il plauso di pla­tee di impren­di­tori attenti solo – come è per­sino giu­sto che sia – al pro­fitto delle pro­prie aziende e ai van­taggi che pos­sono trarre dalla bene­vo­lenza gover­na­tiva. Né ancora basta richia­mare un par­tito della nazione, con ciò impli­ci­ta­mente spin­gendo il dis­senso nella cate­go­ria del tra­di­mento piut­to­sto che del con­fronto neces­sa­rio con opi­nioni, idee, pro­getti di cui biso­gna tener conto. Né infine basta l’accusa che altri lavo­rino per spac­care il mondo del lavoro, e magari il paese, e rifiu­tare, con que­sta e altre fan­ta­siose moti­va­zioni, di sedersi a un tavolo in vista per la ricerca delle media­zioni possibili.

Come si può affer­mare che miri alla rot­tura chi vuole uguali – e mag­giori – diritti per tutti? O rite­nere che lavori invece per l’unità chi legge l’eguaglianza – pila­stro della Costi­tu­zione — come livel­la­mento verso il basso, minore dignità e qua­lità di vita, più debole difesa dei pro­pri diritti? È que­sto lo sce­na­rio verso il quale le scelte di governo ci stanno portando.

Il pre­mier è pale­se­mente infa­sti­dito che intorno al suo pro­getto non cre­scano entu­sia­stici e una­nimi con­sensi, e che anzi si pre­pari una sta­gione di forti con­tra­sti. Ma era scritto. Si pos­sono chie­dere a un paese sacri­fici anche gravi, che però i tweet o face­book non bastano a far metabolizzare.

Ci vor­reb­bero par­titi radi­cati, capaci di por­tare moti­va­zioni e capa­cità di con­vin­ci­mento dal ponte di comando ai luo­ghi di lavoro, nelle case, nelle fami­glie. Ma quei par­titi sono stati sman­tel­lati, con il plauso miope di molti. Ci vor­reb­bero orga­niz­za­zioni capil­lari come i sin­da­cati, con i quali ci si vanta invece di rifiu­tare ogni dia­logo. Ci vor­reb­bero isti­tu­zioni capaci di dare voce a tutte le posi­zioni, anche le più lon­tane, per­ché l’azione di governo ne tenga per quanto pos­si­bile conto. Invece, si fa l’esatto con­tra­rio, can­cel­lando spazi di rap­pre­sen­tanza, tagliando pre­senze poli­ti­che vitali con soglie di sbar­ra­mento e premi di mag­gio­ranza, ridu­cendo all’obbedienza i riot­tosi e dando all’esecutivo il con­trollo dei lavori parlamentari.

Quel che accade è quanto un certo costi­tu­zio­na­li­smo della crisi rite­neva e ritiene neces­sa­rio per fron­teg­giare l’emergenza eco­no­mica e il riag­giu­sta­mento delle ragioni di scam­bio tra nord e sud del mondo. Non fun­ziona, in spe­cie quando l’inversione di rotta nella crisi non è vicina come si spe­rava. Come si pensa di spie­gare, di con­vin­cere, di gover­nare e con­te­nere il males­sere sociale? Sono false le gioie di una poli­tica senza corpi inter­medi, par­titi, sin­da­cati. Non serve dare la sca­lata a un par­tito con il leve­ra­ged buy­out delle pri­ma­rie aperte. È mera rap­pre­sen­ta­zione tea­trale che basti l’investitura di un turno elet­to­rale per garan­tire a qual­siasi ese­cu­tivo una effet­tiva e dura­tura capa­cità di governo. Né ovvia­mente sup­pli­scono cari­che di poli­zia e man­ga­nelli. Che serve man­ga­nel­lare le spe­ranze perdute?

Renzi non può cavar­sela con le invet­tive o le com­par­sate tele­vi­sive. Dovrebbe leg­gere la Costi­tu­zione, a par­tire dall’art. 2 per cui la Repub­blica richiede l’adempimento dei doveri inde­ro­ga­bili di soli­da­rietà poli­tica eco­no­mica e sociale. Se poi stu­diare la Costi­tu­zione fosse troppo, potrebbe leg­gere il discorso di Papa Fran­ce­sco ai Movi­menti popo­lari del 28 otto­bre. Soli­da­rietà – dice il Papa – «è anche lot­tare con­tro le cause strut­tu­rali della povertà, la disu­gua­glianza, la man­canza di lavoro, la terra e la casa, la nega­zione dei diritti sociali e lavo­ra­tivi … intesa nel suo senso più pro­fondo, è un modo di fare la storia … ».

È pro­prio que­sto ele­mento di soli­da­rietà che manca nel mes­sag­gio del pre­mier e nella azione di governo. Certo, non sarebbe poli­ti­ca­mente cor­retto che i Papi aves­sero tes­sere di par­tito. Del resto, a veder bene, se Papa Fran­ce­sco la chie­desse al Pd pro­ba­bil­mente gliela rifiu­te­reb­bero. È un comunista

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