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Tomaso Montanari
Il Colosseo, Mr. Tod’s e la Patria suicidata
6 Agosto 2013
Beni culturali
«Della Valle non è un furbetto, ma neanche un padre della Patria». Differenze fra sponsor e mecenate. E fra Stato che realizza principi costituzionali e stato che li tradisce.

Il Fatto Quotidiano, 6 agosto 2013 (m.p.g.)

Diego Della Valle va annoverato tra i padri della Patria o è un furbetto che vuole fare le scarpe al Colosseo? La risposta è nel contratto di sponsorizzazione firmato nel gennaio 2011 tra il padrone delle Tod's e l'allora commissario dell'archeologia di Roma, Roberto Cecchi. Come è noto, in quell'occasione Della Valle si impegnò a donare 25 milioni di euro (deducibili fiscalmente) per finanziare il restauro dell'Anfiteatro.

In cambio di cosa? La Tod's dichiara che costituirà l'Associazione Amici del Colosseo: non, come il nome indicherebbe, una libera riunione di cittadini capace di autodeterminarsi attraverso il voto, ma una fondazione controllata da Della Valle. E quasi tutti i benefici riservati allo sponsor vengono girati da Tod's a questa fondazione.

E i benefici non sono da poco: «realizzare in esclusiva un logo raffigurante il Colosseo»; «gestire in esclusiva l'attività di comunicazione relativa agli interventi di restauro e pubblicizzare l'attività di restauro del Colosseo»; «realizzare, direttamente o tramite Tod's, un "Centro" nelle vicinanze del Colosseo per l'accoglienza dei sostenitori dell'Associazione». Tutto questo, per quindici anni dalla costituzione della fondazione stessa. Non è finita: per due anni dalla fine dei lavori la Tod's potrà utilizzare il logo con il Colosseo abbinato al proprio; stampare il proprio marchio sul retro dei biglietti d'ingresso e sulla recinzione del cantiere; «pubblicizzare in abbinamento a propri prodotti e/o marchi l'erogazione del proprio contributo».

Non c'è bisogno di spiegare perché tutto questo metta in allarme chi ancora crede nella funzione costituzionale del patrimonio artistico: cioè nella sua alterità rispetto al mercato, nel suo legame con la conoscenza, nella sua dimensione egualitaria. In nessun paese occidentale si potrebbe trasformare in un logo l'immagine di uno dei monumenti simbolo del paese stesso (per secoli il Colosseo è stato al posto della corona civica sulla testa delle allegorie dell'Italia), né concedere un monopolio pluriennale sulla comunicazione di una ricerca scientifica (qual è, comunque lo si paghi, il restauro del Colosseo). E costruire ex novo un edificio, per quanto provvisorio, nell'area vincolatissima dei Fori è una bestemmia inaudita.

Ma Diego Della Valle appare in perfetta buona fede. Quando mi ha chiamato per protestare contro le mie critiche, ho capito che davvero non si capacita che qualcuno storca la bocca di fronte a tutto ciò. E la buona fede emerge anche dal contratto stesso. Se quelli che avete appena letto sono i diritti che gli sono stati offerti, Della Valle ha infatti voluto scrivere che non ne approfitterà appieno: per esempio «Tod's non abbinerà l'immagine del Colosseo ai suoi prodotti», e cederà il retro dei biglietti ad associazioni umanitarie.

In qualche modo, Della Valle si rende dunque conto che sarebbe sbagliato usare commercialmente un simbolo dell'identità culturale italiana, ciò che pure uno Stato alla frutta gli ha consentito di fare: non è Della Valle ad essere invadente, è lo Stato che non esiste più. Non c'è molto da stupirsi, perché la controparte pubblica del contratto fu Roberto Cecchi (già direttore generale dei Beni artistici, e poi sottosegretario ai Beni culturali di Monti): che è sotto processo alla Corte dei Conti per il danno erariale causato dall'acquisto del crocifisso implausibilmente attribuito a Michelangelo. E il pdl Francesco Giro (ex sottosegretario ai Beni culturali della brillante fase Bondi-Galan) vorrebbe che l'Associazione Amici del Colosseo fosse presieduta da Andrea Carandini: il noto archeologo che, dopo aver restaurato il castello di famiglia con 288.973 euro pubblici, lo apre ai cittadini per ben due ore al mese (comodamente: il primo lunedì, dalle 9 alle 11). Insomma, non proprio una costellazione di strenui difensori dell'interesse pubblico.

Ma il problema è generale. Per dirla con le parole di Don Raffaé di Fabrizio De André: «Lo Stato che fa? / Si costerna, si indigna, si impegna / e poi getta la spugna / con gran dignità». Anche il seguito è illuminante, e ben si applica al Ministero per i Beni culturali: «mi scervello, e mi asciugo la fronte / per fortuna c’è chi mi risponde». Ecco, è opinione diffusa che all'abdicazione dello Stato non ci sia rimedio se non la taumaturgica apertura a «chi risponde» (naturalmente per interesse), cioè i privati: oggi tocca ai beni culturali, domani sarà la volta di sanità e scuola.
Anche all'interno del governo Letta la partita è proprio questa. La sottosegretaria ai Beni culturali Ilaria Borletti Buitoni ha dichiarato che trova esemplare l'operazione Tod's-Colosseo, e sta cercando di imporre in ogni modo l'ingresso dei privati nella gestione del patrimonio. E siccome il ministro Massimo Bray prova invece a tener fede alla Costituzione su cui ha giurato, il conflitto è feroce. Nell'ultimo Consiglio dei ministri è stato il ministro della Difesa Mario Mauro a cercare di far passare la privatizzazione del patrimonio artistico, dicendo che questa è la linea del suo partito, Scelta Civica (nelle cui liste è stata eletta la Borletti Buitoni, dopo un'oblazione di ben 710.000 euro).

Ma siamo proprio sicuri che la scelta sia tra la Tod's e la rovina del nostro patrimonio? Non è così. Innanzitutto è prioritario incrementare il bilancio dei Beni culturali (siamo ormai a un miserrimo miliardo l'anno: contro i 26 di spese militari, cui si aggiungono i 13 per i bombardieri F35). Infine, anche volendo far partecipare i privati, c'è modo e modo di farlo. Sul web è facile scaricare un altro contratto di sponsorizzazione, quello che dal 2004 regola le donazioni ad Ercolano del miliardario americano David W. Packard. Se si vuol spiegare la differenza tra sponsor e mecenate, basta confrontare articolo per articolo questo contratto con quello Tod's. Packard chiede solo che il logo della sua fondazione benefica compaia nelle pubblicazioni scientifiche della Soprintendenza, e che a Ercolano venga apposta una targa di «dimensioni concordate con la Soprintendenza». Una bella differenza, no? Ma Packard è americano, e chi legga anche solo qualche pagina – per dire – di Tony Judt o di Joseph Stiglitz sa che in America si è superata da qualche decennio l'ideologia privatistica reaganiana cui sono fermi gli apostoli italiani della religione del privato.

In conclusione, Della Valle non è un furbetto, ma neanche un padre della Patria. Perché la Patria si è suicidata.

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