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Mario Pianta
Il coccodrillo di Squinzi
24 Maggio 2013
Articoli del 2013
Qualcuno ricorderà pure che, a partire dagli anni 70, la grande industria italiana decise di alleare il profitto con la rendita e stracciare la possibile intesa col salario, e scelse di preferire il guadagno ottenuto con la speculazione immobiliare a quello conquistato con l’inprenditività e il rischio.

Qualcuno ricorderà pure che, a partire dagli anni 70, la grande industria italiana decise di alleare il profitto con la rendita e stracciare la possibile intesa col salario, e scelse di preferire il guadagno ottenuto con la speculazione immobiliare a quello conquistato con l’inprenditività e il rischio.

Il manifesto, 24 maggio 2013Era il 17 marzo del 2001, Confindustria aveva radunato 4.800 imprenditori a Parma per incoronare Silvio Berlusconi come proprio candidato alle elezioni di maggio, quando fece a pezzi Francesco Rutelli. Il capo degli industriali era uno dei peggiori, Antonio D'Amato, e presentò un progetto di centralità dell'impresa fondato su sgravi fiscali, flessibilità, precarizzazione del lavoro. Silvio B. lo definì «la fotocopia di un programma di governo, quello che noi presenteremo agli italiani». Da allora, quasi tutto di quel programma è stato realizzato - solo la riduzione della tutela dal licenziamento, fermata dall'enorme manifestazione Cgil del 2002, ha dovuto aspettare l'arrivo del governo Monti e i voti del Pd per essere introdotta l'anno scorso.

Confindustria aveva rinnovato l'invito a Berlusconi a Parma il 10 aprile 2010, davanti a 6000 imprenditori, un record di partecipazione. Allora Silvio B. - fresco vincitore del voto del 2008 - le aveva sparate grosse. «Non siamo un paese in declino» e i conti pubblici italiani «sono in ordine grazie a Tremonti». L'anno prima, nel 2009, la recessione aveva tagliato il Pil italiano del 5,1%, ma gli industriali avevano applaudito Silvio B. che annunciava che non dobbiamo «farci toccare dal pessimismo e dal catastrofismo».

Ora il catastrofista siede al vertice di Confindustria, si chiama Giorgio Squinzi e ieri ha dichiarato che «il Nord è sull'orlo di un baratro» - il Sud vi è precipitato da decenni, ma questo allarma assai meno l'assemblea degli industriali. Lacrime di coccodrillo o retorica dell'emergenza? «Ci aspetta un grande impegno comune: fare una nuova Italia, europea, moderna aperta», una grande alleanza col governo delle già larghissime intese. Ma contro chi? Contro il fisco, le banche che non danno soldi, il costo del lavoro (proprio così) a livelli insostenibili. Concorda il presidente del consiglio Enrico Letta, che dichiara di essere «dalla stessa parte» delle aziende. Soddisfatti i sindacati.

È possibile che i fatti - per non parlare delle responsabilità per le politiche passate - siano così completamente rimossi dai discorsi dell'élite economica e politica di questo paese? Dall'inizio della crisi nel 2008 al 2012 il Pil italiano è crollato dell'8%, la produzione industriale - quella che interessa a Squinzi - di oltre il 20%, gli investimenti - quelli che dovrebbero fare i suoi associati - del 17%.
L'Italia è passata nella serie B del sistema produttivo europeo per effetto delle politiche dei governi di centro-destra e di larghe intese e per effetto delle scelte delle imprese italiane di arricchirsi con la finanza, abbandonare innovazione e ricerca, vendere e chiudere gli impianti. Solo in Svizzera ci sono 150 miliardi di euro di capitali italiani trasferiti clandestinamente; se solo il 10% rientrasse in Italia per essere investito dagli associati di Confindustria, la ripresa invocata da Squinzi sarebbe immediata.

È tragico che non ci sia un ministro, un politico, un sindacalista che offra questa replica, mentre un italiano su sei non trova - o sta perdendo - il lavoro.

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