Dopo due settimane di negoziati, la Commissione Onu sullo sviluppo sostenibile, al suo quindicesimo incontro annuale, non è riuscita a licenziare a un documento finale, per divergenze fondamentali sulla natura e gli obiettivi dell'agenda dello sviluppo sostenibile. Nata dall'Agenda 21 - il programma d'azione per lo sviluppo sostenibile adottato nel giugno 1992 all'Earth Summit di Rio de Janeiro - la Commissione ha il compito di incoraggiare la cooperazione internazionale nell'applicazione dell'Agenda stessa a tutti i livelli: locale, nazionale, regionale, internazionale.
L'ostacolo maggiore si è rivelato essere il futuro del Protocollo di Kyoto che scade nel 2012. L'Unione europea ha sottolineato l'urgenza di un nuovo accordo per proseguire con il sistema di riduzioni obbligatorie delle emissioni di gas serra. Ma ad Australia, Stati uniti e Canada gli obblighi vincolanti risultano indigesti. A differenza dei primi due paesi, il Canada ha ratificato Kyoto; ma adesso il governo conservatore di Stephen Harper dice che il paese «non può» rispettare questo impegno. All'ultimo momento il gruppo dei 77 insieme a Cina, Usa, Canada e Messico ha accettato un'offerta «prendere o lasciare» da parte del presidente di turno della Commissione Onu, il ministro dell'Energia e dell'Industria del Qatar. Ma l'Unione Europea e la Svizzera hanno preferito lasciar perdere un documento che non prevedendo vincoli «non va incontro alle aspettative e alla sfide mondiali». Fra i temi caldi anche la questione del nucleare: Algeria, Argentina, Cile, Pakistan e altri avrebbero voluto inserirlo nell'elenco delle energie sostenibili; l'Ue e l'Associazione delle piccole isole-stato (minacciati nella loro stessa esistenza geografica) si sono opposti. Il fallimento dei lavori della Commissione Onu getta un'ombra sui futuri negoziati sul clima, previsti a Bali in dicembre. Negli stessi giorni in cui i governi si fronteggiavano in sede Onu, è uscito un rapporto della storica organizzazione inglese Christian Aid dal titolo Human Tide: The Real Migration Crisis in cui si stimano in un miliardo da qui al 2050 i rifugiati climatici: gli abitanti della Terra - in stragrande maggioranza dai paesi già impoveriti - che saranno a tal punto danneggiati dal caos climatico da dover fuggire altrove. Il rapporto parte dai 155 milioni che già hanno dovuto lasciare le proprie terre e case a causa di guerre, disastri «naturali» e progetti di sviluppo su larga scala. E chiede un'azione urgente da parte della comunità internazionale per evitare - contenendo l'aumento della temperatura a meno di 2 gradi centigradi, cioè un dito sotto la catastrofe - il peggior spostamento di popolazioni della storia mondiale. Movimenti in grado di destabilizzare intere regioni, se popolazioni sempre più disperate si troveranno a competere per acqua e cibo scarseggianti. Viene citato a monito il conflitto in Darfur, che trova la propria origine in generazioni di guerre per il controllo dell'acqua e dei diritti di pascolo in questa regione ampia e arida. Anche Wangari Maathai, l'ambientalista sociale kenyana vincitrice del Premio Nobel per la pace nel 2004, ha detto in un'intervista al Washington Post che il disastro nella regione del Sudan è centrato sulla ripartizione di risorse scarse, «una lotta per il controllo di un ambiente che non può più sostenere tutti gli esseri umani che ci vivono».
L'organizzazione poi fa il suo lavoro, chiedendo ai paesi maggiori responsabili delle emissioni di mettere in piedi un fondo di 100 miliardi di dollari all'anno per aiutare i paesi più poveri e vulnerabili a mettere in atto strategie di adattamento all'aumento del livello dei mari, alla crescente siccità e agli eventi climatici estremi. I contributi al fondo dovrebbero essere proporzionali alle emissioni pro capite dei paesi.C'è da sperare nel programma d'azione «immediata» che dovrebbe uscire dal Vertice sul clima delle C40, le più grandi città del mondo, in corso a New York.