Ha fatto bene Salvatore Settis a ricordare nella lettera di dimissioni di aver criticato allo stesso modo, quale presidente di un organismo squisitamente tecnico-scientifico, il ministro Bondi al pari dei suoi predecessori, di uguale o diverso colore. Come fece, nella stessa carica, Giuseppe Chiarante, coi ministri Veltroni e Melandri e col forzista Urbani che però lo «epurò». La storia si ripete. Per anni Norberto Bobbio ci ha ricordato che l’autonomia critica degli intellettuali dalle parole d’ordine della politica è il dato fondante della cultura democratica. Quando si pretende che essi si allineino a governi e a partiti oppure tacciano e se ne vadano, la democrazia è in pericolo.
Pochi minuti dopo aver ricevuto da Settis le dimissioni, come se dovesse cambiarsi di camicia o di cravatta, Bondi ha nominato al suo posto un archeologo non meno noto, Andrea Carandini, che negli ultimi tempi ha detto di sì, in nome della lotta contro «i Talebani della conservazione» (abbiamo capito), alla politica dei commissariamenti per le aree archeologiche di Roma e Ostia e al prestito e al trasporto di opere delicatissime come i Bronzi di Riace trattati da Made in Italy commerciale. Un subentrante già omologato. Per ora accolto da una raffica di dimissioni che noi speriamo si moltiplichino, al pari delle qualificate proteste di intellettuali. A smentire quei pochi già saltati, invece, in modo fulmineo sul carro del vincitore.
Il nodo è politico. Si confrontano apertamente due concezioni profondamente diverse della cultura e dei suoi beni: quella di chi li considera un valore «in sé» e quindi ritiene che ogni valorizzazione sia contenuta nella tutela stessa da finanziare e potenziare, e quella di chi intende fermamente «mettere a reddito» il nostro passato spremendone profitti, anche a costo di lasciar decadere la tutela. Si confrontano conservazione intelligente e attiva e commercializzazione spinta e privatistica. Quest’ultima è la strategia del centrodestra. E quella del centrosinistra?