Altreconomia.it, 9 ottobre 2014
Se le proiezioni saranno confermate, nel 2014 il consumo di cemento nel nostro Paese scenderanno sotto le venti milioni di tonnellate. Secondo i dati presentati dal centro studi dell'AITEC, l'Associazione confindustriale che riunisce le principali aziende che producono cemento in Italia, il nostro Paese non è mai sceso “così in basso” dal 1961, da prima del boom economico. Se misuriamo la variazione rispetto al 2007, che è l'anno principe della “bolla immobiliare” nel nostro Paese, accanto al segno meno c'è scritto 56,13%: oltre la metà della produzione pro capite di cemento è andata perduta. Peggio di noi, dal 2010 ad oggi, ha fatto solo la Spagna, un altro Paese in cui nei primi anni Duemila si è costruito, costruito, costruito, aumentando a dismisura l'offerta di case, senza badare all'effettiva esistenza di una domanda, o alimentandola in modo fittizio garantendo mutui troppo facili, che oggi -complice la disoccupazione- sono diventati un grave problema sociale.
Di fronte a questi numeri, però, l'unica scelta possibile per il governo Renzi, che avrebbe dovuto cambiare verso al Paese, è quella di (provare a) governare il settore: secondo le informazioni de Il Sole 24 Ore, dal 2008 ad oggi sono stati chiusi 21 dei 60 impianti a ciclo completo presenti sul territorio nazionale, anche se in molti casi non si tratta di chiusure definitive, e il governo dovrebbe aprire un tavolo di concertazione con i produttori di cemento, per pianificare -insieme- il futuro del settore (e dei suoi 8.600 addetti). Non è pensabile, infatti, che la produzione di cemento ritorni ai livelli del 2006-2007, come ha ben evidenziato la scelta di Italcementi di chiudere nell'arco di un triennio quasi la metà dei propri stabilimenti, ma un governo responsabile non può lasciare che sia il mercato a decidere. Perché il mercato non è mai libero pienamente, come dimostrano -ad esempio- i finanziamenti pubblici che attraverso la Banca europea degli investimenti sono arrivati a Cementir e Italcementi per “ristrutturare” e trasformare in co-inceneritori di rifiuti gli impianti di Taranto e Rezzato (BS).
Anche perché, nel caso dei cementifici, stiamo parlando di un'industria insalubre, di uno dei settori le cui emissioni sono monitorate dall'Unione Europea nell'ambito del programma europea di riduzione legato al Protocollo di Kyoto. Così, non dev'essere solo la magistratura amministrativa a dire che cosa si può e non si può fare nei cementifici e coi cementifici, quando i cittadini -o le amministrazioni comunali- si rivolgono ai giudici del TAR per verificare la legittimità di un singolo atto. C'è bisogno della politica, e anche di un po' di buon senso. Quello che vorrebbe, ad esempio, che l'immagine di alcune delle aree più belle del Paese non venisse “sporcata” dalle ciminiere di un cementificio, né che quest'impianti continuino ad esistere nelle nostre città, a ridosso di zone densamente abitate. Partiamo da qui, dalla chiusura dei cementifici di Pederobba, Fumane in Valpolicella, Monselice ed Este, all'interno del Parco dei Colli Euganei, Taranto, Pescara, Piacenza e Barletta.
Così tanto cemento non serve più, prendiamone atto.