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Vincenzo Visco
Il cavillo infilato del decreto di Natale
5 Gennaio 2015
Articoli del 2015
«La tesi della "manina", del fantasma di Palazzo Chigi, del giallo del rimpallo di responsabilità fra ministero dell’Economia e staff del premier». La cronaca di A.Baccaro e M. Galluzzo, i commenti di L. Ferrarella e G.Pellegrino, le interviste a Stefano Fassina e Vincenzo Visco.

Corriere della Sera e la Repubblica, 5 gennaio 2015, con postilla

Corriere della Sera
FURBIZIA O SOLO IGNORANZA?
di Luigi Ferrarella

Al supermercato c’è la tracciabilità del cotechino e si può sapere tutto della filiera di provenienza di un kiwi: nei Consigli dei ministri del governo di Matteo Renzi, invece, sembra difettare la tracciabilità delle norme «orfane» o «desaparecide». Soprattutto nei decreti legislativi, dove deleghe troppo generiche ed estese conferiscono all’esecutivo un potere sottratto a un effettivo controllo parlamentare, persino superiore a quello dei già troppo abusati decreti legge. Sempre più spesso nelle sedute di governo non si capisce chi e perché faccia sparire in uscita norme che in entrata c’erano; o chi invece infili e faccia votare a distratti ministri norme che in entrata non c’erano, e che all’uscita nessuno più nel governo sembra riconoscere o addirittura conoscere.

È successo già tre volte solo nell’ultimo mese. Sull’applicabilità o meno della licenziabilità del Jobs act ai dipendenti pubblici si sono visti un influente senatore (Ichino) affermare che in Consiglio dei ministri fosse entrata una norma poi depennata, due ministri (Madia e Poletti) smentirlo e assicurare che mai vi fosse stata una norma del genere, e infine il premier ammettere che sì, insomma, la norma c’era ma era poi stata tolta in vista di un altro più coerente contenitore legislativo.
Pochi giorni prima, quando il governo aveva (per ora solo) annunciato una già striminzita legge anticorruzione, in Consiglio dei ministri era entrata, ma misteriosamente non era più uscita per mano di non si sa chi, una norma premiale per il primo tra corrotto e corruttore che spezzasse il vincolo d’omertà e denunciasse il complice. E adesso, dopo due casi di norme «desaparecide», eccone uno di legge «orfana»: cinque parole che, nell’attuazione delle delega sui reati fiscali, alla vigilia di Natale paracadutano una inedita «clausola di non punibilità» che, per una serie di rimbalzi procedurali, di sponda avrebbe l’effetto finale di dare a Berlusconi la chance di chiedere la revoca della condanna definitiva per frode fiscale sui diritti tv Mediaset e ritornare alla politica sinora preclusagli da quella legge Severino che come presupposto ha appunto l’esistenza di una condanna definitiva.
Ora Renzi, che in conferenza stampa aveva magnificato il decreto legislativo sorvolando su questa norma, nel più classico degli schemi lideristici annuncia, quasi parlasse di un meteorite piovuto chissà da quale galassia, che lo fermerà e farà riesaminare in un nuovo Cdm. Sarà interessante vedere come, giacché il dichiarato intento governativo - un fisco amichevole che non usi più il bastone penale su chi tutte le tasse non paga non perché voglia evaderle ma perché non ce la fa per la crisi - pareva già ampiamente (anche troppo) soddisfatto dalle modifiche che nelle singole fattispecie di reati fiscali rendono non punibili la «dichiarazione infedele» fino a 150.000 euro, l’«omessa dichiarazione» fino a 50.000 euro, la «dichiarazione fraudolenta mediante artifici» fino a 30.000 euro di imposta evasa e 1 milione e mezzo di imponibile sottratto al fisco o 5 per cento di elementi attivi indicati, e la «dichiarazione fraudolenta mediante fatture per operazioni inesistenti» fino a 1.000 euro l’anno.

Ecco perché ora non può finire solo con il ritiro dell’articolo 19-bis, ibrida «clausola di non punibilità» che, «per tutti i reati del presente decreto», metteva al riparo chi evade in una modica quantità (come la droga) stabilita in un per nulla modico 3% dell’imponibile dichiarato. Clausola che nel passato calza a pennello alla sentenza di Berlusconi, e che per il futuro equivale tra l’altro anche ad autorizzare (e quasi incentivare) una media-grande impresa, ad esempio da 50 milioni di imponibile, ad accantonare impunemente un milione e mezzo di «fondi neri» utilizzabili per alimentare poi tangenti.
Delle due l’una: o Palazzo Chigi sapeva bene cosa stesse approvando e allora non si capisce perché oggi Renzi faccia precipitosa marcia indietro; oppure non lo sapeva, e allora c’è da preoccuparsi. Come antidoto alla tossicità di questo procedere opaco di legiferare, infatti, un governo che non lesina tweet fatui, e proclama trasparenza online sul buongoverno.it , dovrebbe anche rendere pubblico quali ministri o burocrati o consulenti hanno scritto o interpolato o veicolato quell’articolo 19-bis; quali motivazioni, magari serie, lo argomentavano; chi e dove e quando ha valutato i pro e contro della norma; quali posizioni hanno assunto sul punto i ministri più interessati (Economia, Giustizia, Rapporti col Parlamento, presidenza del Consiglio).
Perché si può fare tutto, anche depenalizzare questo o quel reato, magari pure con benefici indiretti per questo o quel soggetto: ma alla luce del sole, con trasparenza dei percorsi e consapevolezza dei risultati. Per migliorare i quali, forse, ogni tanto non guasterebbe qualche sfottuto «professorone» in più, e qualche fedele ma incompetente in meno.


La Repubblica

IL TRUCCHETTO DEL TRE PER CENTO
di Gianluigi Pellegrino

Il ripensamento ha senz’altro il sapore giusto dell’atto dovuto. Il riconoscimento di un errore inaccettabile che il governo stava compiendo. E che si deve stare in guardia non si ripresenti nei prossimi passaggi del provvedimento in Consiglio dei ministri. Ciò detto, non pochi interrogativi restano appesi, e aspettano risposte ugualmente doverose.

La norma inserita nel decreto fiscale era infatti, prima ancora di ogni finalità sospetta, del tutto indifendibile nel merito. Un autentico sgorbio grave quanto odioso. Stabiliva espressamente che un ricco che froda al fisco milioni di euro se ne esce con una semplice sanzione amministrativa, solo per la sua alta dichiarazione dei redditi. Mentre per uguale o minore evasione un cittadino comune deve essere punito severamente con la galera.

Una norma che non c’entrava nulla con i meritori contenuti del decreto delegato e che contraddiceva gli obiettivi indicati più volte da Renzi: punire i grandi evasori senza per questo mostrare ai cittadini un fisco nemico, arrabbiato e aguzzino. Qui invece si faceva l’esatto contrario. E allora la domanda è come sia potuto avvenire. Come abbia potuto lo stesso governo approvare quel testo. Nessuno si era accorto delle conseguenze? O qualcuno sperava che il provvedimento sarebbe passato inosservato? Non si sa quale sia l’ipotesi peggiore.

E nel mistero della manina autrice del codicillo non può sorprendere che si sottolinei come quella normetta traduceva alla lettera il ritornello berlusconiano: come fate a condannare per frode fiscale me, che pago milioni di tasse? Che è un po’ come pretendere di giustificare l’omicidio di un medico se per il resto ha curato molti malati. O la pedofilia di un prete o di un insegnante se per il resto hanno educato tanti bambini.

In realtà il furto del ricco dovrebbe al più essere un’aggravante. Eppure esattamente quel principio declamato dal Cavaliere risultava tradotto in legge, perché si rendeva non più punibile la orchestrata frode milionaria, in ragione della complessiva dichiarazione di redditi del colpevole. Utilizzando il giochetto del 3 per cento che cadeva a pennello per cancellare con un colpo di spugna le frodi del leader di Forza Italia, aprendo la voragine di unsalvacondotto per tutti i grandi evasori.

Ora, dopo il clamore suscitato, il governo fa giustamente macchina indietro. Ma delle due l’una. O era una norma approvata consapevolmente e doveva allora dichiararsene la suo esplicita finalità all’interno di una più o meno malintesa pacificazione con Berlusconi. Oppure, se è stata inserita da altri è grave che il premier l’abbia firmata. Adesso non può certo covare in seno a Palazzo Chigi serpi che giocano proprie indicibili partite. E nemmeno può accettare che chi doveva non lo abbia avvertito né messo in campana. Altrimenti è lui, il premier, a non dirci tutto.

Passa a ben vedere da qui, alla vigilia di una fase decisiva, una prova non secondaria per la credibilità della complessiva azione del governo, anche al di là di un codicillo abusivo quanto grossolano. Anche per fugare il terribile dubbio che fosse vile moneta di scambio per il voto sul Quirinale.

Corriere della Sera
RIMPALLO TRA PALAZZO CHIGI E TESORO.
POI RENZI SI ASSUME LA RESPONSABILITA'

di Antonella Baccaro e Marco Galluzzo

Roma. La tesi della «manina», del fantasma di Palazzo Chigi, del giallo del rimpallo di responsabilità fra ministero dell’Economia e staff del premier, si rincorre per tutto il giorno. Ma alla fine è lo stesso Renzi a metterla a tacere. A chi lo chiama, a chi chiede spiegazioni, nel pomeriggio, il capo del governo dice che non c’è alcun mistero, che la norma incriminata l’ha voluta lui, è stata condivisa con il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, discussa con gli altri ministri, che fa parte dello spirito del provvedimento.

Nel governo, più o meno nelle stesse ore, c’è chi dice che si è trattato di «una leggerezza spaziale». C’è chi aggiunge, con una punta di imbarazzo, anche a Palazzo Chigi, che semplicemente, la norma, «ci è sfuggita». Ovviamente nessun ci fa una grande figura: un Consiglio dei ministri composto da politici e tecnici ha discusso di una norma su un reato delicato, sensibile, controverso, su cui il Cavaliere ha ricevuto una condanna appena nel 2013 e nessuno si è accorto di nulla. Nessuno ha avuto nulla da obiettare. Una versione per certi tratti verosimile, visto che in quella stessa riunione fu dedicato molto più tempo al Jobs act. Ma resta «la leggerezza», tanto macroscopica da infuocare il clima politico, e alla fine l’ammissione della stessa.
Questione chiusa? Mica tanto. La tensione provocata dalle polemiche sorte intorno alla norma che, secondo alcune interpretazioni, regalerebbe a Berlusconi l’agognato rientro a pieno titolo nella gara elettorale, ha alimentato per tutto il giorno veleni e sospetti che emergono, qua e là, nelle versioni alcune concordanti, altre meno, sulla genesi della norma e sul suo obiettivo. Basta riavvolgere il nastro. La prima scena si svolge al ministero dell’Economia, dove il lavoro preparatorio sul decreto si è concluso il giorno prima del Consiglio dei ministri della vigilia di Natale. Sui giornali c’erano già state polemiche su alcune bozze circolate del decreto fiscale, ma avevano riguardato l’innalzamento della soglia di punibilità della dichiarazione infedele da 50 mila a 150 mila euro. Della famigerata soglia del 3%, quella al di sotto del quale si guadagnerebbe l’impunità, nessuno aveva mai sentito parlare.
«Fino al 23 dicembre mattina quella norma non c’era — conferma il sottosegretario Enrico Zanetti —. Il 24 io non c’ero, il 25 e 26 mi sono dedicato alla famiglia, ma poi il giorno dopo sono andato a leggermi il testo del decreto direttamente sul sito web del governo». E lì si è accorto della novità, sollevando l problema. Il viceministro Luigi Casero concorda: «Neanche io ho sentito mai parlare di una soglia del 3% prima di vedere il testo uscito dal Consiglio dei ministri, quando ormai ero tornato a Milano. Del resto non è stata l’unica novità: ce ne sono almeno 3 o 4 rispetto alla versione che avevamo licenziato».
Padoan ieri non ha parlato, né il suo portavoce ha fornito spiegazioni sulla dinamica della vicenda. Alla domanda se il ministro difenda o meno la norma incriminata, si è limitato a rispondere che «non c’è una posizione nel merito della norma ma una disponibilità a valutare gli effetti della sua applicazione». Cioè? «Il principio discusso in Consiglio dei ministri va salvato: è opinione diffusa che così come sono oggi le norme consentono a quelli “bravi a evadere” di sfuggire, mentre vengono colpiti comportamenti di rilevanza minore». Proprio di questo si sarebbe parlato in un Consiglio dei ministri che i presenti, a dire il vero, ricordano più per l’animata discussione sul Jobs act. Un ministro, che in Consiglio c’era, rammenta che Padoan presentò il testo del decreto ma che Renzi aprì una discussione su alcuni punti per aumentare, in alcuni casi, e diminuire, in altri, le sanzioni. Si parlò delle ricadute della norma del 3% su Berlusconi? Il ministro giura di no.
Alla fine il testo rimaneggiato ottenne l’approvazione «salvo intese» per consentire agli uffici di verificare le compatibilità normative della nuova versione. Cosa che si sarebbe fatta al termine del Consiglio, finito alle 15.45, nel pomeriggio del 24, a Palazzo Chigi, dove l’ufficio legislativo guidato da Antonella Manzione stese la versione definitiva insieme a esponenti del ministero della Giustizia e dell’Economia e non si sa se c’era anche qualcuno del gabinetto di Renzi. Il testo del decreto appare sul sito del governo già il 24 sera. L’attenzione si sposta dunque sul gabinetto che ha steso il testo finale: qualcuno dei tecnici era più consapevole degli altri delle possibili ricadute della norma? Sul punto resta il mistero. Certo, il rimpallo delle prime ore viene in qualche modo depotenziato dall’assunzione di responsabilità del premier. Il testo del Mef è stato cambiato, Palazzo Chigi vi ha apportato almeno quattro o cinque modifiche, «ma Padoan le ha condivise tutte», e poi «è del tutto normale che in sede di approvazione un testo venga in qualche modo modificato per essere migliorato».
Se ai suoi uffici dice di respingere qualsiasi insinuazione «strampalata» di scambi con l’ex premier, se in tv va a spiegare che il provvedimento sarà fermato, rivisto e inviato alle Camere solo dopo l’elezione del capo dello Stato, per fugare ogni dubbio di «inciucio», a chi gli parla nella giornata, in sostanza il capo del governo ammette che è stato fatto un errore, che ci si trova di fronte a una svista, per quanto macroscopica. Basterà a fugare tutte le ombre?

La Repubblica
“MATTEO TROPPO DISINVOLTO E PADOAN HA SBAGLIATO"
Intervista a Stefano Fassina

«Quella norma è agghiacciante ». Più chiaro di così, Stefano Fassina non può essere. Lui che a via XX settembre ha trascorso quasi un anno da viceministro, stavolta non ha dubbi: «Sono colpito e preoccupato. Per il deficit di autonomia e la marginalità che il ministero dell’Economia ha dimostrato in questo passaggio, visto che si trattava di un tema di stretta competenza del ministro. E per la disinvoltura di Renzi».

Perché dice che il premier è stato disinvolto?
«Perché prima ha forzato la mano sull’Economia, introducendo una norma che il ministro non condivideva. E poi, di fronte alla reazione della stampa e dell’opinione pubblica, ha fatto una retromarcia imbarazzante. Su un tema, fra l’altro, molto delicato come la depenalizzazione della frode fiscale».

Con una norma che potrebbe favorire anche Berlusconi.
«L’attenzione mediatica adesso si è concentrata sul leader di Forza Italia, ma non è quello l’unico elemento preoccupante della norma. Se si depenalizza la frode fiscale in un Paese che ha il record mondiale di eversione, non va bene. Il governo dovrebbe rimuovere le condizioni che determinano l’evasione di sopravvivenza, colpendo allo stesso tempo i grandi evasori. Qui invece si fa l’opposto».

Lei pensa che c’entri il patto del Nazareno?
«Non voglio credere che sia un elemento del patto del Nazareno, anche perché è evidente che un intervento di questo tipo non sarebbe passato inosservato. Credo invece che sia stato un errore grave».

Può accadere che una sanatoria del genere entri nel decreto senza che il ministero dell’Economia comprenda gli effetti?
«Non esiste che il ministro e il ministero si facciano infilare una norma del genere durante il consiglio dei Ministri. Non è un dettaglio, quindi ci sono due possibilità: il ministro era d’accordo, oppure non se n’è accorto. E non so se questa seconda ipotesi sia migliore. L’unico modo per cui si può inserire una norma del genere senza che se ne accorga il ministro è che il Dipartimento degli affari giuridici di Palazzo Chigi lo inserisca nel testo a consiglio dei ministri concluso».

Tutto accade a pochi giorni dalla sfida per il Colle. Questo incidente può pesare?
«La disinvoltura con cui il premier ha portato avanti questa vicenda non crea il clima migliore in vista dell’elezione per il Quirinale. Credo che il nuovo Presidente vada scelto con la più ampia convergenza possibile, Forza Italia compresa. Dopodiché questa situazione complica il quadro».

Corriere della Sera 5 Gennaio, 2015
«ALL'ECONOMIA HANNO COMUNQUE SBAGLIATO»
Intervista a Vincenzo Visco
Professor Visco, da ex ministro del Tesoro, che idea si è fatto del decreto «incriminato»?
«Si tratta di un provvedimento attuativo di una legge delega che ha l’obiettivo, tra l’altro, di riordinare il penale tributario secondo una logica di attenuazione. Ma di certo l’aspettativa generale non era quella di arrivare a depenalizzare i reati tributari. Non credo che la gente pensi che chi commette tali reati contribuisca all’affollamento delle carceri... ».
Quindi non c’è solo una norma considerata favorevole a Berlusconi. Secondo lei il nuovo decreto introduce una generale depenalizzazione dei reati tributari?
«Sì, una depenalizzazione di tutto, cominciando dall’elusione, in contrasto logico col fatto che in sede Ocse e G20 ci battiamo contro le multinazionali che operano in questo modo».

Ci faccia un altro esempio.
«Chi fa fatture false per mille euro non è punibile. Ma se una fattura è falsa è falsa, non c’è da mettere limiti. Uno può fare una cartiera che produce fatture false per cento, mille contribuenti e non viene punito? È inquietante».

C’è altro?
«Sì, tutte le frodi colpite negli ultimi anni nelle quali sono stati usati strumenti derivati dalle banche d’affari vengono depenalizzate».
Poi c’è la soglia di punibilità che passa da 50 mila a 150 mila euro.
«Esatto, questo vuol dire che l’evasore fino a 3-400 mila euro di materia imponibile non è punibile penalmente: forse è troppo. E poi non è più reato l’imputazione di costi non inerenti all’attività d’impresa, cioè ad esempio quando si portano in deduzione costi di consumi che sono del contribuente o dei suoi familiari. Non è più reato neanche l’omessa dichiarazione del sostituto d’impresa, questa deve essere stata una dimenticanza, ma ci sono altre norme che possono comportare una perdita di gettito importante».

Quali?
«Ad esempio quella che elimina una norma, che avevo introdotto io, che raddoppiava i termini ordinari di accertamento nel caso in cui, durante l’attività di verifica, gli uffici avessero riscontrato la rilevanza penale di determinati comportamenti. Con la modifica gli anni da otto passano a quattro. Impossibile agire».
Sì, ma sul comma che esclude la punibilità se l’importo delle imposte sui redditi evase non è superiore al 3% dell’imponibile che pensa?
«Che è in contrasto con l’intero impianto della riforma che si basa sulle soglie: non ha senso».

postilla


Questa vicenda rivela la profondità dell'abisso nel quale Mattei Renzi, e l'ideologia di cui è portatore, ci hanno gettato. Un governo che adopera il linguaggio del twitter perché non conosce la sintassi, la grammatica e l'ortografia della lingua italiana; che alla fretta sacrifica la ponderazione; che preferisce lo strillo all'argomentazione e lo slogan al ragionamento; che assegna ai "burocrati" il ruolo dei servi del Capo invece di quello di servitori del popolo (civil servant) é nefasto per il paese sul quale esercita il suo dominio. Che poi il beneficiario (il consumatore finale) di questo degrado sia Silvio Berlusconi è scritto nelle cose. E' lui il padre ideale (e il padrino) della compagine che attornia il premier. Non è poi difficile stilare l'elenco dei complici, passati e presenti, dell'uno e dell'altro, di Matteo e di Silvio.


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