Alle parole del presidente del Consiglio, per una volta, cominciano a seguire i fatti. In molte occasioni, egli aveva lamentato un eccessivo carico di controlli fiscali, di vincoli amministrativi che si abbattevano su sei milioni di imprese, impedendo loro di produrre ricchezza. Come Tremonti, anche Renzi, nei suoi discorsi pubblici, ha evocato lo spettro di uno Stato di polizia che opprime le aziende e per questo ha proclamato una grande guerra contro la burocrazia invasiva. E almeno queste solenni sfide contro i vigili, le fiamme gialle che indiscreti bussano alle porte delle officine non sono rimasti lettera morta. I dati forniti dai consulenti del lavoro sono molto significativi. Nel 2014, i controlli sono stati 221 mila 476 (e nel 35,9% delle aziende raggiunte, sono emerse irregolarità). Nel 2015, le visite degli ispettori sono scese a 106 mila 849 (con il 29,3% delle imprese pescate in situazioni irregolari).
I controlli in un anno sono dimezzati, sebbene l’entità dell’economia sommersa (due milioni di lavoratori in nero) e l’ampiezza delle perdite fiscali per lo Stato (ben 25 miliardi l’anno sfumano per l’evasione di contributi previdenziali e di imposte), siano ingenti. Il governo fa di tutto per mantenere alta la soddisfazione delle imprese, entusiaste per il suo operato che sforbicia diritti e taglia beni pubblici per dirottare risorse alle casse aziendali. Oltre ai miliardi di decontribuzioni, di sgravi fiscali, di tagli Irap, le imprese corsare possono contare anche sulla benevola chiusura di un occhio da parte dello Stato sulle loro pratiche illecite.
Sono aiuti di Stato diretti o indiretti quelli che tollerano il caporalato, l’economia criminale o in nero, i danni ambientali, l’evasione fiscale e contributiva. Accontentate su tutto, anche sulla licenza di licenziare, previo modico indennizzo monetario, le imprese vivono in una condizione paradisiaca, con il premier che per giunta si dichiara «gasatissimo» da Marchionne. Si spalanca un continuum politica-impresa che fa impallidire la metafora del «meccanismo unico» agitata dai marxisti in anni ormai lontani.
Eppure, nonostante il legame di ferro tra il governo e l’impresa, e l’indebolimento perseguito con accanimento del lavoro e del sindacato, la ripresa non c’è e i cupi segnali di declino non spariscono dall’orizzonte. Gli investitori scelgono altri mercati rispetto a quello italiano, dove anche i prodotti finanziari e assicurativi navigano fuori controllo e certi giochi d’azzardo si mantengono lontani da ogni efficace attività sanzionatoria.
Il grande impedimento, al superamento della crisi, risiede in ciò che la politica è diventata in questi anni di decadenza e in quello che il capitalismo è sempre stato in Italia. Una politica senza autonomia, e un’impresa senza capacità competitive, strozzano la vita economica. Un governo che si fa largo con il programma della Confindustria (al punto che Squinzi certifica: «Questo governo è una formula uno»), non fa bene all’economia. Perché non è ingrossando il sommerso, gonfiando il nero e abrogando i diritti simbolici del lavoro che si guida la ripresa.
Con le nuove misure taglia tasse, annunciate per settembre, il governo ordinerà un ulteriore dimagrimento del pubblico, cioè un ridimensionamento della spesa per la sanità, i servizi, i trasporti, la scuola, la ricerca senza in alcun modo creare nuova occupazione, senza stimolare investimenti produttivi. Il laurismo 2.0 lascerà solo macerie.
Questo è, a tutti gli effetti, un governo della stagnazione che, per vincere le elezioni, disperde le risorse scarse disponibili. Per accontentare le imprese che incassano soldi in contanti, l’esecutivo rinuncia a disegnare politiche pubbliche per lo sviluppo sostenibile, accantona ogni progetto per politiche industriali basate sull’innovazione. Mentre con il Jobs Act invoca controlli a distanza sulla vita privata dei lavoratori, il governo allontana la vigilanza sulle pratiche tributarie e contributive delle imprese, che indisturbate proseguono nelle loro opache pratiche criminogene. Un governo di classe.