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Timothy Garton Ash
Il capitalismo globale nemico di se stesso
2 Dicembre 2007
Capitalismo oggi
Se non ci sforziamo di guardare al di là del quotidiano e dal contingente, il nostro mondo non durerà ancora a lungo. Da la Repubblica del 23 febbraio 2007

Qual è il pachiderma presente in qualsiasi ambiente? È il trionfo globale del capitalismo. La democrazia è messa aspramente in discussione. La libertà è a rischio, perfino nelle democrazie di antica creazione come la Gran Bretagna. La supremazia dell’Occidente è in declino. Ma tutti praticano il capitalismo. Lo praticano gli americani e gli europei. Lo praticano gli indiani. Lo praticano gli oligarchi russi e i principi sauditi. Perfino i comunisti cinesi lo praticano. E adesso i membri del più antico kibbutz di Israele, l’ultima utopia di socialismo egalitario, hanno votato per introdurre le retribuzioni mensili variabili, sulla base delle performance individuali. Karl Marx si rigirerebbe nella tomba. O forse no, perché alcuni dei suoi scritti inspiegabilmente pronosticavano già la nostra epoca del capitalismo globale. La sua formula ha fallito, nondimeno la sua descrizione era presciente. Questo è il fatto sensazionale dell’inizio del ventunesimo secolo, un fatto di così grande portata e talmente dato per scontato che di rado ci soffermiamo a riflettere quanto sia straordinario. Non era mai accaduto, prima. "Potrà sopravvivere il capitalismo?" si chiedeva il pensatore socialista britannico G.D.H. Cole in un libro pubblicato nel 1938 con il titolo "Socialism in Evolution" (nella versione italiana "L’evoluzione del socialismo"). La sua risposta all’interrogativo era stata negativa. Al capitalismo sarebbe seguito il socialismo. La maggior parte dei lettori di questo giornale probabilmente sarebbe stata d’accordo nel 1938.

Quali sono le grandi alternative ideologiche che si prospettano di questi tempi? Il "socialismo del ventunesimo secolo" di Hugo Chavez appare tuttora un fenomeno locale, tutt’al più regionale, praticato nella sua forma migliore negli Stati ricchi di petrolio. L’islamismo, in certe circostanze etichettato come il preminente antagonista del capitalismo democratico in una nuova guerra ideologica, non offre un sistema economico alternativo (se si escludono le peculiarità della finanza islamica), e ad ogni buon conto non è molto allettante al di là della umma musulmana.

La maggior parte dei no-global, degli altermondialistes e, in verità, degli attivisti verdi è molto più brava a mettere in luce i fallimenti del capitalismo globale che a suggerire alternative strutturali. "Il capitalismo dovrebbe essere sostituito da qualcosa di più bello" si leggeva su uno striscione sbandierato a una dimostrazione londinese in occasione del Primo Maggio di qualche anno fa.

Chiaramente, siamo in presenza di un problema di definizioni. Quello che fanno le aziende russe o cinesi statali è autentico capitalismo? Fondamento stesso del capitalismo non è forse la proprietà privata? Uno dei massimi esperti americani di capitalismo, Edmund Phelps, docente della Columbia University, ha una definizione ancor più restrittiva di capitalismo. Secondo lui quello che pratichiamo in buona parte dell’Europa continentale, questo modello di stakeholder economy, non è capitalismo propriamente detto, bensì corporativismo. Il capitalismo, dice Phelps, è "un sistema economico nel quale il capitale privato è relativamente libero di innovare e investire senza il placet dallo Stato, né il permesso delle comunità e delle regioni, dei lavoratori e di altri cosiddetti partner sociali". Nel qual caso, si può dunque affermare che la maggior parte del mondo non è capitalista. Reputo troppo restrittiva questa definizione. Di sicuro, in Europa sono presenti varie forme di capitalismo, dalle economie di mercato più liberali, come Gran Bretagna e Irlanda, alle più coordinate forme di stakeholder economy, come Germania e Austria.

In Russia e in Cina vi è tutta una gamma di proprietà, da quelle statali a quelle private. Nei processi decisionali delle società a controllo statale hanno maggior peso considerazioni diverse da quella della massimizzazione degli utili, ma anch’esse operano come protagoniste nei mercati nazionali e internazionali e sempre più spesso parlano la lingua del capitalismo globale. Al World Economic Forum di quest’anno a Davos ho ascoltato Alexander Medvedev, ai vertici di Gazprom, difendere l’operato di quella società dicendo che Gazprom è una delle cinque compagnie più importanti al mondo per le capitalizzazioni di Borsa, e che si sforza costantemente di assicurare buoni rendimenti ai suoi azionisti, che guarda caso includono lo Stato russo. Quanto meno, ciò suggerisce un’egemonia della tesi del capitalismo globale. Il "capitalismo leninista" cinese è un caso bordeline di grande rilevanza, ma il modo di procedere a passo di granchio delle aziende cinesi in direzione di quello che noi saremmo portati a definire un comportamento capitalista, più che un comportamento non capitalista, è di gran lunga più evidente di qualsiasi altra evoluzione lo Stato cinese stia compiendo in direzione della democrazia.

La mancanza di una qualsiasi chiara alternativa ideologica significa che il capitalismo è al sicuro per gli anni a venire? Tutt’altro. Al trionfo senza precedenti del capitalismo globalizzato, negli ultimi venti anni si sono accompagnate nuove minacce che si proiettano sul suo stesso futuro. Non sono esattamente le famose "contraddizioni" individuate da Marx, ma potrebbero essere addirittura più gravi. Tanto per cominciare, la storia del capitalismo negli ultimi cento anni difficilmente regge all’opinione secondo cui sarebbe un sistema in grado di auto-correggersi automaticamente. Come fa notare George Soros (che dovrebbe saperne qualcosa), oggi i mercati globali sono più che mai costantemente instabili, sempre più spesso sull’orlo di un’instabilità maggiore. Ripetutamente sono stati necessari ben visibili interventi e correttivi politici, fiscali e legali per integrare la mano invisibile del mercato. Quanto più grande esso diventa, tanto più pesantemente può crollare.

Una petroliera è più stabile di una barchetta a vela, ma se le paratie interne della petroliera si squarciano e il greggio inizia a riversarsi da una parte all’altra durante una tempesta, ci sono i presupposti per un disastro di proporzioni immani. Sempre più spesso, il capitale mondiale è come il petrolio racchiuso all’interno di un’unica gigantesca petroliera, che ha sempre meno paratie interne in grado di evitare che si verifichino fuoriuscite.

C’è poi l’aspetto delle ineguaglianze. Una caratteristica del capitalismo globalizzato pare essere il fatto che esso premia in maniera sproporzionata i suoi protagonisti, non soltanto nella City londinese, ma anche a Shanghai, a Mosca e a Mumbai. Quali saranno le ripercussioni a livello politico del fatto che nei Paesi nei quali la maggioranza della popolazione è ancora infinitamente povera vi sarà un numero ristretto di persone infinitamente ricche? Nelle economie più avanzate, come Gran Bretagna e America, una middle-class ragionevolmente benestante, con un tenore di vita individuale che migliora piano piano, può essere meno infastidita da un gruppetto di super-ricconi, le cui pagliacciate per lo più forniscono loro una consueta razione di diversivi in formato tabloid. Tuttavia, se un buon numero di persone della middle-class inizia a percepire che ci sta rimettendo davvero qualcosa in quel medesimo processo di globalizzazione che rende schifosamente ricca quella manciata di gestori di capitali, che pratica al contempo l’outsourcing in India dei posti di lavoro della middle-class, allora potrebbe scatenarsi una reazione violenta. Per farsi un’idea di ciò che potrebbe accadere, si segua Lou Dobbs, alla Cnn.

Più di ogni altra cosa, però, c’è l’inevitabile e insolubile problema che questo pianeta non può sostentare sei miliardi e mezzo di persone e far sì che vivano come vivono oggi i consumatori della middle-class del suo ricco Nord. Nel volgere di soli pochi decenni potremmo aver esaurito i combustibili fossili che hanno impiegato 400 milioni di anni per accumularsi, e in conseguenza di ciò per di più avremo alterato il clima terrestre. Sostenibilità sarà anche una parola grigia e noiosa, ma è pur sempre l’unica vera e grande sfida odierna al capitalismo globale. Per quanto ingegnosi possano essere i moderni capitalisti nell’individuazione di tecnologie alternative – e saranno molto ingegnosi - da qualche parte, su tutta la linea, questo significherà che i più ricchi consumatori si dovranno adattare a sempre di meno, invece che a sempre di più.

Marx pensava che il capitalismo si sarebbe imbattuto nel problema di reperire i consumatori per i beni e gli articoli che le tecniche di produzione in costante miglioramento avrebbero consentito di sfornare in grandi quantità. Invece, è diventato esperto in un inedito ramo della produzione industriale: la creazione di desideri. La genialità del capitalismo moderno è che non solo mette a disposizione dei consumatori quello che vogliono, ma in più arriva addirittura a far sì che essi vogliano quello che esso ha da dar loro. Ed è proprio questa logica di fondo di desideri che si espandono a dismisura ad essere insostenibile su scala globale. E nondimeno: siamo davvero pronti a farne a meno? Siamo lieti di coibentare i nostri loft, di riciclare i giornali e di andare al lavoro in bicicletta, ma siamo effettivamente disposti ad accontentarci di meno affinché altri abbiano di più? Posso dire di esserlo? E voi, lo siete?

(Traduzione di Anna Bissanti)

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