Il manifesto, 22 marzo 2014
Alcuni anni fa – eravamo già in piena crisi – dopo una trasmissione in cui un noto economista di sinistra, nonché columnist di un importante quotidiano, si era a lungo diffuso sulla necessità rimettere in moto la crescita, gli avevo chiesto: ma davvero pensi che l’economia italiana possa tornare a crescere a breve? Mi aveva risposto in modo perentorio: in Italia non ci sarà più crescita per almeno dieci anni. Da allora quell’economista–columnist ha pubblicato articoli su articoli su come il paese può riprendere a crescere; ora, subito, ovviamente; non fra dieci anni.
A un altro economista–columnist che aveva pubblicato, insieme a un terzo collega — successivamente risucchiato nel buco nero della lista “Fermiamo il declino” di Oscar Giannino — un articolo molto citato dove sosteneva che per fermare lo spread bisognava vendere subito tutte le imprese di Stato, avevo chiesto, qualche mese dopo, se non avesse cambiato idea. Perché quello che si può ricavare da una vendita simile è irrisorio rispetto alla montagna del debito pubblico italiano. Mi aveva risposto di sì; considerava quell’articolo un errore. Da allora ha continuato a scrivere articoli su articoli per propugnare la vendita di tutti gli asset di Stato. E per occuparsi meglio della cosa è diventato anche un consigliere di Renzi.
Questi episodi, insieme ad altre riflessioni, mi hanno convinto che gli economisti mainstream, o la grande maggioranza, non credono assolutamente in quello che scrivono. Sanno benissimo, o sospettano fortemente, che con le loro ricette, o soprattutto a causa di esse, le cose non possono che andare sempre peggio. Ma allora, perché lo fanno? Perché non raccontano quello che veramente pensano? Il fatto è che non riescono a uscire dalla gabbia concettuale in cui li imprigiona la loro disciplina, ormai assurta al rango di pensiero unico, senza più distinzioni tra destra e sinistra.
Non sanno ragionare senza il puntello di categorie che rimandano a un mondo che non esiste e non è mai esistito, dove tutto ruota intorno a un mercato immaginario, eretto a supremo regolatore del creato, e a cui istituzioni, politica, cultura, ambiente, e la vita stessa di miliardi di esseri umani, non possono fare altro che adattarsi (o cercare di farlo) adottando come unica regola di condotta una lotta di tutti contro tutti. Che loro chiamano concorrenza o competitività. Però, al termine mercato (al singolare) con il quale designano per lo più un meccanismo anonimo, impersonale, trasparente, agìto in modo preterintenzionale da milioni o miliardi di individui, hanno da tempo sostituito il termine “mercati” (al plurale), che allude invece a un potere opaco – anonimo solo perché i suoi detentori agiscono nell’ombra – concentrato in mano a pochissime entità che dominano il mondo con la finanza. Ecco spiegata in modo semplice la loro afasia su ciò che sta succedendo: una gigantesca espropriazione di miliardi di esseri umani per concentrare la ricchezza in un pugno sempre più ristretto di privilegiati. Molti di loro, in realtà, lo sanno benissimo e dietro a tanta teoria non c’è che la difesa dell’ordine esistente, per quante critiche, peraltro assolutamente marginali, gli rivolgano.
Ci sono molti precedenti storici di un approccio concettuale del genere, che Marx chiamava ideologia; ma uno è più chiaro di tutti. E’ il conflitto che aveva spinto la Chiesa cattolica e l’inquisizione a mandare al rogo Giordano Bruno e a imporre una ritrattazione a Galileo Galilei per difendere una concezione dell’universo consolidata in una dottrina da cui discendeva l’immutabilità dell’ordine gerarchico della società del tempo. Anche allora gli inquisitori di Galileo non credevano a quello che sostenevano: per questo si rifiutavano di guardare nel telescopio che mostrava due satelliti di Giove che “bucavano” la sfera celeste, mettendo in forse la sua perfezione cristallina e, con essa, quella dell’ordine sociale.
Ma oggi a bucare i cieli del pensiero unico non ci sono solo due piccoli satelliti, ma diversi giganteschi buchi neri. Per restare in Europa, il primo è la Grecia, il paese-cavia degli esperimenti correttivi della Troika, che anche il nostro attuale ministro dell’economia, solo tre anni fa, spacciava come un’amara medicina che avrebbe risanato il paese. Il paese non è stato affatto risanato; anzi, è stato condannato al rogo come Giordano Bruno. E il suo popolo è ancora in vita solo perché sta lottando con tutte le proprie forze contro quei famigerati memorandum; cioè contro le conseguenze di politiche che, come ci ricordava Luciano Gallino (la Repubblica, 15 marzo), vanno considerate un vero e proprio «crimine contro l’umanità». Eppure quella medicina i sostenitori del pensiero unico insistono a propinarla; la loro scienza non può sbagliare; d’altronde a morine è solo il paziente. Ma in quel cannocchiale puntato sulla Grecia, qualcuno dei nostri economisti–columnist ha provato a guardare?
Un secondo buco nero, che non richiede nemmeno un binocolo per essere visto, è una meteorite che sta per precipitare sul nostro già devastato paese, e su molti altri, per ridurli in poco tempo in cenere come la Grecia. Si chiama fiscal compact e prevede per le finanze dell’Italia, a partire dall’anno prossimo, l’esborso di circa 50 miliardi all’anno, per venti anni di seguito, per restituire una parte cospicua del debito pubblico del nostro paese. Cinquanta miliardi che si andranno ad aggiungere ai quasi 100 che già sborsiamo ogni anno, sotto forma di interessi, ai creditori (privati) dello Stato italiano; soprattutto da quando è stato realizzato il famigerato divorzio tra Governo e Banca d’Italia; la quale, da allora non ha più potuto finanziare il deficit della spesa pubblica. Cumulando gli interessi che lo Stato italiano ha pagato da allora, infatti, e per nessun altro motivo, si è andato costituendo quel mostruoso debito pubblico che oggi viene invece imputato a una popolazione saccheggiata e impoverita, che secondo gli economisti mainstream sarebbe vissuta per anni al di sopra delle sue possibilità. Quel divorzio, peraltro, ha poi fornito alla Bce il modello dello statuto che la esclude dal ruolo di prestatore di ultima istanza; e che è all’origine della maggior parte dei colpi inferti alla solidarietà e alla solidità dell’Unione europea.
Per questo, sia detto di sfuggita, uscire dall’euro, posto che sia fattibile, non ci restituirebbe certo un prestatore di ultima istanza: un’istituzione che può invece venir reintrodotta solo con una lotta condotta a livello europeo. Bene, in quel binocolo nessun economista–columnist sembra disposto a guardare: cioè a spiegare da dove lo Stato italiano potrà mai tirar fuori tutto quel denaro; ovvero quale tasso di crescita sarebbe necessario raggiungere – e subito! – per far fronte a un impegno simile. Preferiscono discettare, incensando il nuovo premier come avevano fatto con tutti quelli venuti prima di lui, sui due o quattro decimali di punto percentuale su cui potrebbe giocare Renzi per far quadrare i conti senza far arrabbiare troppo la Commissione europea. Ma può quel che resta del tessuto produttivo italiano, non dico crescere, ma reggere ancora a lungo, se lo Stato destina ogni anno alla rendita un decimo del Pil? Nessuna risposta in proposito sembra venire dai politici e dagli economisti che stanno mandando anche noi al rogo.
Il fatto è che per scrutare sia le viscere di quei poteri dove si accentra ormai quasi metà della ricchezza della Terra, sia l’universo di una popolazione mondiale – e nel suo piccolo, italiana — proletarizzata, impoverita, sfruttata, indebitata e sospinta ai margini di una vita decente, ci vogliono ben altre discipline che non l’economia mainstream, di destra o di sinistra. Ci vuole una scienza nuova che cancelli dalla faccia della terra tutti i quei pregiudizi; una scienza come quella con cui Galileo aveva fatto piazza pulita dell’universo tolemaico. O, forse, non una scienza vera e propria, con tutti i paludamenti che accompagnano questo termine, ma un insieme di saperi costruiti guardando in faccia il mondo com’è. Dei saperi costruiti sulle evidenze della vita quotidiana di milioni di uomini, di donne, di vecchi e di bambini; sui loro bisogni; sui loro desideri; e soprattutto sui loro mille talenti. Le forze che si stanno raccogliendo in Europa intorno alla candidatura di Alexis Tsipras alla Presidenza della Commissione europea – e che rivendicano una revisione radicale dei trattati che regolano l’Unione, la remissione di una parte sostanziale dei debiti e un grande piano di lavori pubblici per ricondurre il paese alla sostenibilità ambientale — possono essere un punto di riferimento per presentare oggi, e far valere sempre più domani, una visione del mondo alternativa e una prospettiva radicalmente diversa da quella concezione tolemaica del mercato come “risolutore di ultima istanza” dei nostri problemi che ci sta condannando tutti al rogo.