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Gaetano Azzariti
Il bluff suicida della legge elettorale
22 Febbraio 2012
Articoli del 2012
I partiti politici sono sordi e ciechi, oppure stanno preparando lucidamente il loro definitivo divorzio dalla società? Il manifesto, 22 febbraio 2012

Che fine ha fatto la nuova legge elettorale? S'è persa, gettata nel pozzo della revisione costituzionale. L'accordo tra le maggiori forze politiche su un complessivo pacchetto di modifiche istituzionali, infatti, fa temere che alla fine si andrà a votare conservando l'attuale sistema elettorale. Sarebbe un atto suicida: la delegittimazione dell'attuale Parlamento supererebbe ogni limite e la forza dell'antipolitica finirebbe per travolgere gli stessi partiti. L'unica fonte di legittimazione del potere, a quel punto, non potrebbe che essere quella tecnocratica. La nostra democrazia, sofferente ormai da troppo tempo, avrebbe concluso la propria epopea, trascinando il paese verso la deriva di una tecnocrazia neoliberista. Il governo Monti perderebbe il carattere dell'eccezione e rappresenterebbe il prototipo dei governi prossimi futuri.

I partiti politici - le vittime predestinate in questo scenario - non sembrano essere consapevoli o non sanno reagire. È certo comunque che s'illude chi pensa veramente di poter riformare il bicameralismo, ridurre il numero dei parlamentari e rafforzare il governo approvando una legge costituzionale, per poi modificare i regolamenti parlamentari per introdurre corsie preferenziali ai provvedimenti del Governo. Ed infine modificare la legge elettorale secondo un modello ritagliato sulle attuali esigenze dei tre partiti maggiori. Non importa considerare il merito delle proposte, quel che appare determinante è che non ci sono le condizioni, né il tempo per realizzare così velleitari propositi. Tutte le misure dovrebbero essere sostanzialmente decise entro l'estate. In autunno il Parlamento sarà impegnato a discutere le leggi finanziarie di fine anno, per poi gettarsi, con l'inizio del nuovo anno, in una lunga campagna elettorale per le politiche del 2013. Chi può credere che tutto possa essere definito nel giro di sei mesi?

Apparentemente ragionevole l'argomento utilizzato per fermare la richiesta di una immediata riforma della legge elettorale, ma che alla fine appare solo pretestuoso. Si spiega l'ovvio: la scelta di un sistema elettorale si collega all'assetto costituzionale complessivo. Vero, ma è anche vero che l'ordine logico non coincide mai con l'ordine storico nella ridefinizione degli equilibri tra i poteri (neppure nell'ipotesi estrema dell'instaurazione di un ordinamento costituzionale del tutto nuovo). Basta guardare indietro. In fondo anche l'imposizione in Italia della cosiddetta democrazia maggioritaria ha avuto origine da una legge elettorale che ha anticipato la modifica dei regolamenti parlamentari, mentre nulla ha potuto di fronte alla rigidità del sistema bicamerale. Può, ovviamente, auspicarsi che la riforma della legge elettorale innesti un progressivo riassetto degli equilibri tra i poteri e che ciò possa esigere ulteriori modifiche dei regolamenti parlamentari o anche adeguate misure che richiedano revisioni costituzionali. Ma questo - bene che vada - può essere un compito per la prossima legislatura, non certo per l'oggi. Impensabile che simile impresa possa essere assolta da partiti compromessi nel vecchio assetto dei poteri, in una fase di delegittimazione politica e sociale, nonché di ridefinizione complessiva del sistema politico. A voler seguire la stessa logica sistemica che presiede alla «grande riforma» proposta (riforma costituzionale, più riforma dei regolamenti, più riforma elettorale) dovrebbe coerentemente affermarsi che un altro tassello appare essenziale per il successo: prima di ogni cosa si riformino i partiti. Non risulta che questo, però, rientri tra gli accordi raggiunti tra le maggiori forze politiche, le quali sembrano voler cambiar tutto salvo se stessi.

D'altronde, neppure quando si discute di cambiare la legge elettorale emerge una netta consapevolezza della gravità del momento. Più che voler risalire la china, riacciuffando una legittimazione e una capacità rappresentativa ormai perduta, i partiti politici sembrano interessati a difendere ciascuno le proprie rendite di posizione. Come se non fossero coscienti che un terremoto li travolgerà, come se credessero veramente che modificata la legge elettorale tutto possa tornare com'è stato sin qui. Il tentativo di accordo ventilato (il cosiddetto modello ispano-tedesco), ma anche i discorsi che si susseguono tra le forze politiche, comprese quelle minoritarie, paiono esclusivamente improntate a individuare il punto di maggiore vantaggio per gli attuali assetti e strategie politiche.

Un ritorno al proporzionale che però avvantaggi solo i primi tre partiti, ritagliando i collegi e innalzando lo sbarramento oltre la soglia che - si presume - possono raggiungere gli altri; definire un sistema che imponga l'accordo preventivo di coalizione, per assicurare alle forze minori uno spazio decisivo, rendendoli determinati ancor prima della verifica elettorale.

In tal modo, ciascuno crede di pensare al proprio futuro e dare ancora una possibilità alle proprie - certamente legittime - pretese politiche, ma non si avvede che la fotografia che oggi si vuole scattare per mantenere lo status quo diventerà ben presto sfuocata. Ancor prima della prossima tornata elettorale.

Avremmo grande bisogno di politici lungimiranti che comprendano come la propria sopravvivenza sia legata a un filo sottile: quel filo che dovrebbe ricondurre i partiti a esercitare il ruolo loro assegnato dalla nostra costituzione, tornando a essere uno strumento dei cittadini affinché questi possano concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale. Ciò che potrà salvare i partiti, e con essa quel che rimane della democrazia costituzionale, non sarà l'alchimia elettorale, ma solo un sistema che riscopra le virtualità della rappresentanza politica reale.

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