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Il benecomunismo è una cosa seria
21 Marzo 2012
Articoli del 2012
Alberto Lucarelli, Maria Rosaria Marella, Ugo Mattei, Luca Nivarra rispondono all’editoriale domenicale di Eugenio Scalfari. Il manifesto, 20 marzo 2012

Può avere qualche significato politico il fatto che il fondatore di Repubblica, Eugenio Scalfari, abbia ritenuto di dedicare ai beni comuni - e al movimento da essi ispirato - l'incipit del suo editoriale della domenica. A dire il vero, il «benecomunismo» non è l'unico oggetto della infastidita attenzione di Scalfari. Figurano in un elenco di avversari della «ragione» (o, quantomeno, del «ragionevole»), incarnata nella diade Monti-Fornero: Beppe Grillo, Sabina Guzzanti, gli indecisi, i non votanti, gli indifferenti, e anche «la falange dei corrotti e dei corruttori» e le relative lobby.

Secondo Scalfari, questa compagnia di giro sarebbe tenuta insieme dall'ostilità nei confronti della democrazia rappresentativa, del mercato, della Tav, delle banche, dello spread, sognando, viceversa, di sostituire a tutto questo uno sgangheratissimo e chiaramente irrealizzabile sistema di democrazia diretta sorretto da una deriva antipolitica. La strada da percorrere, viceversa, è quella che stanno percorrendo Monti e Fornero, sia pure con qualche piccola, innocente sbavatura (ad es. non aver tirato le orecchie a Marchionne per aver sbattuto fuori la Fiom dalla Fiat): La strada delle riforme, in primis quella del mercato del lavoro, e del rigore finanziario, l'unica in grado di restituire dignità e prospettiva al Paese, dopo la lunga e infausta parentesi imposta dal Cavaliere.

Non abbiamo titolo per rispondere a nome di Grillo, Guzzanti, degli indecisi e neppure dei corruttori e delle loro lobby. Possiamo dire qualche cosa sui beni comuni, come studiosi, giuristi, militanti nel movimento referendario, qualcuno di noi come amministratore. È un tema che viene da lontano, dalle lotte per l'acqua sviluppatesi in alcuni Paesi dell'America Latina. In Italia esso incrocia un'importante iniziativa di riforma, promossa dal governo Prodi e culminata nel disegno di legge delega messo a punto dalla Commissione Rodotà che riscrive per intero la disciplina codicistica dei beni pubblici e introduce la categoria dei beni comuni, dando ad essi dignità, se non ancora normativa, quanto meno scientifica: e non è certo un caso che, da allora (la Commissione conclude i suoi lavori nel 2008, pochi giorni prima dello scioglimento delle Camere), la riflessione sui beni comuni abbia prodotto qualche innovativa sentenza e preso stabile dimora, sotto forma di monografie, saggi, tesi di dottorato e di laurea, convegni, all'interno della cultura giuridica italiana, da decenni appiattita su una obsoleta contrapposizione fra pubblico e privato.

L'altro grande fatto costituente per il movimento per i beni comuni nostrano è stato il referendum contro la privatizzazione dei servizi pubblici locali. In questa nuova stagione si inserisce l'avvio del nuovo ciclo di governo progressista di molte città, a cominciare da Napoli, dove i beni comuni danno il nome a un assessorato che si sta impegnando in politiche innovative sia per quel che concerne la gestione dei servizi pubblici, sia per quel che concerne la sperimentazione di forme originali di democrazia diretta e partecipativa che si affiancano, e non si sostituiscono, a quelle della democrazia rappresentativa.

Sull'onda di tutto questo si è sviluppata una spinta alla rivendicazione dei beni comuni (particolarmente significative le diverse occupazioni che a partire dal Teatro Valle sono condotte sotto la bandiera della cultura bene comune) il cui filo unitario è costituito, per un verso, da un netto rifiuto della prospettiva di una integrale mercificazione del mondo e, per altro verso, da una intensa domanda di partecipazione democratica, sin qui mortificata dal micidiale combinato disposto di deriva oligarchica dei partiti e di deriva tecnocratica delle istituzioni. Questa spinta, generosa e talora confusa, ma certo vitale, si è saldata, in alcuni casi, con esperienze di lotta già consolidate, come quella No Tav dove il paradigma dei beni comuni trova espressione esemplare proprio in ragione del forte legame tra una comunità che si autorganizza in forme inedite di partecipazione democratica e un territorio da preservare contro l'ingiustificata violenza di una speculazione finanziaria.

Più democrazia, meno mercato; più partecipazione e più valore d'uso, meno delega e meno valore di scambio: questo, in sintesi, il mondo dei beni comuni che, per dirla con Rodotà, propone un'altra politica capace di sconfiggere l'antipolitica. Si può dissentire: ma quando il dissenso assume le forme della caricatura e dell'aperto dileggio, vuol dire che quelle parole d'ordine cominciano a suscitare inquietudine in quel grande partito trasversale, a cui Repubblica dà voce, per il quale viceversa la parola d'ordine è: non disturbate il manovratore.

Un'ultima notazione. Proprio all'inizio del suo articolo Scalfari, inopinatamente imbossito, si avvale dell'elegante metafora del «dito medio» per descrivere quell'atteggiamento di ostilità a tutte le divinità in cui egli crede. Non possiamo non ricordare al nostro autorevolissimo interlocutore che, nella storia recente dei beni comuni, l'unico «dito medio» (sempre metaforicamente parlando) è quello che governo, Parlamento e Presidenza della Repubblica continuano ad alzare nei confronti del popolo sovrano dopo aver reintrodotto la disciplina dei servizi pubblici locali abrogata dai referendum. Chissà se Scalfari si sarà mai chiesto quanto questo abbia a che fare con l'agonia di quelle istituzioni repubblicane a cui appare tanto affezionato. Magari ce lo dirà in un prossimo editoriale.

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