Il manifesto, 12 marzo 2016
Ai vituperati giornalisti, Massimo D’Alema ne regala tali e tante sul Pd da far invidia a Beppe Grillo. Con la differenza che le bordate sparate dal primo rottamato dell’era Renzi non sono affidate al linguaggio urlato del Blog, ma recitate nel freddo e lucido linguaggio della battaglia politica e della lotta di partito.
Il giudizio di D’Alema sul gruppo dirigente del Nazareno è pesante e senza appello, sul filo delle carte bollate: le primarie sono fatte apposta «per falsificare e gonfiare» i voti. Renzi è «oggettivamente» come Berlusconi. Jobs act, Imu e riforma elettorale non hanno niente a che vedere «con un progetto riformatore». I dirigenti sono «oltre l’arroganza, siamo alla stupidità». Come quella di credere che andando con Alfano e Verdini si vince mentre si perdono tutti i voti del centrosinistra verso il quale Renzi «non ha mai nascosto il suo disprezzo».
Peccato che l’accusa a Renzi di non rispettare lo spirito dell’Ulivo, di non riconoscere a lui e a Prodi il ruolo di padri fondatori del Pd, venga da proprio dal pulpito da cui partì l’attacco al padre dell’Ulivo quando D’Alema, insieme a Bertinotti, disarcionò il governo, fu colpito da una sonora sconfitta del Pd alle elezioni regionali e poi si persuase alle sue stesse dimissioni da palazzo Chigi. Ma il j’accuse è lungo, non si salva niente e nessuno. A parte gli 80 euro, è tutto sbagliato, è tutto da rifare.
Nell’intervista al Corriere della Sera e successivamente a un seminario romano sulla politica estera, l’ex presidente del consiglio ha giocato a fare l’estremista. Non fino al punto di risparmiarsi la battuta sui «partitini di sinistra», ma senza dimenticare che se il Pd va avanti con Alfano e Verdini «nessuno può escludere che alla fine qualcuno riesca a trasformare questo malessere in un partito». Però qui viene il punto. Per non finire nella ridotta di un partitino di sinistra e ricostruire una sinistra di larghe culture politiche e sociali, sarebbe più facile se chi se ne dice portatore all’interno del Pd si decidesse a lasciare Renzi al suo destino di fondatore del partito della nazione.
Invece eccole le «simpatiche minoranze» dei Cuperlo e dei Bersani, che «non riescono a incidere sulle decisioni fondamentali», come nota la perfidia di D’Alema. Tutta la ricca schiera degli oppositori del leader di Rignano abbaia alla luna e non sposta Renzi di un millimetro. Tanto che basta il bazooka dalemiano per incenerire il borbottìo delle esauste minoranze.