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Valentino Parlato
Il 9 aprile mi ricorda il '48, ma in peggio
10 Febbraio 2007
Articoli del 2006
Intervista al padre della sociologia italiana, Franco Ferrarotti: lucida analisi sulla vittoria di Pirro del capitalismo. il manifesto, 7 aprile 2006 (m.p.g.)

Franco Ferrarotti, tanto più ora (il 7 di aprile) che ha compiuto ottant'anni, è un mostro sacro della cultura italiana. Nessuno, che abbia una certa età, può dimenticare che è stato lui a sfondare la cortina di ferro «crocio-marxista» liberando l'insegnamento della sociologia dalla criminologia, dandole la dignità di disciplina autonoma. Poi Franco Ferrarotti non è stato solo professore in patria, ha insegnato in varie parti del mondo, è stato anche deputato, ha indagato sulle borgate non solo romane, ha scritto un sacco di libri, tutti piuttosto provocatori. E anche adesso è un vulcano, che non risparmia lava e lapilli. In omaggio a questi suoi ribollenti ottant'anni non ho resistito alla tentazione di intervistarlo.

Se ti va, visto che siamo alla vigilia, dimmi che pensi di queste elezioni.

Sì, la passione politica non mi manca. Da giovane, avevo ventidue anni, bazzicavo un po' con i trozkisti e gli anarchici. Nel '48 poi ero per la fusione dei socialisti di Nenni con i comunisti di Togliatti. Questi i miei lontani precedenti. Ora, le elezioni di domenica: mi sembrano molto importanti, quasi come quelle del 18 aprile del 1948 e vale sottolineare che il leader avverso non è De Gasperi, ma Berlusconi. Quelle del '48 segnarono la storia d'Italia dando il potere alla restaurazione democristiana. Oggi il rischio è analogo: Berlusconi è il bacino collettore di tutto lo storico moderatismo italiano, per di più rafforzato dalla chiesa cattolica. E' un blocco socio-culturale da temere.

Mi chiedi come andrà. Ho molta fiducia nel fatto che Berlusconi - come si è già visto - a un certo punto sbarella. Penso che il centro-sinistra vincerà, ma - aggiungo - o sarà una vittoria chiara e forte oppure sarà una mezza vittoria e la crisi italiana continuerà e andrà peggio.

La tua, e si era già nel 1960, è stata la prima cattedra di sociologia in Italia. Come mai questo ritardo?

In Italia dominava quel che io chiamerei crocio-marxismo, che fece blocco contro la sociologia: la si studiava solo nelle facoltà di giurisprudenza e medicina, come criminologia, ma non poteva essere una scienza a sé.

E come sei riuscito a passare, ad avere una cattedra?

Nel mondo accademico avevo due quinte colonne, Nicola Abbagnano e Franco Lombardi, poi ho avuto un po' di fortuna, ma dominante era l'affermazione della sociologia in tutto il mondo occidentale: l'eccezione italiana non poteva resistere.

In che senso fortuna?

Pensa che nel 1949 (avevo 23 anni) Einaudi pubblicò la mia traduzione della «Teoria della classe agiata» di Veblen. Il volume arrivò nelle librerie il 3 gennaio del 1949 e il 15 gennaio uscì una stroncatura di Benedetto Croce: il successo era assicurato. Ma anche la cultura marxista si schierò contro: la rivista Critica Economica diretta da Antonio Pesenti pubblicò la sua stroncatura a firma di Angiolini, che era - credo - il redattore capo della rivista. Allora trovai un sostegno da parte di Cesare Pavese e Felice Balbo.

Perché queste resistenze?

Si temeva una contaminazione della cultura consacrata e c'era anche la convinzione dell'impossibilità di passare dall'empiria (propria della sociologia) alla teoria.

Credo di capire, ma a che serve oggi la sociologia?

Bella domanda. La sociologia avrebbe dovuto essere sinottica, globale, l'autoanalisi continua dello stato della nostra società. Invece è diventata una tecnica specialistica di analisi settoriali senza un giudizio complessivo. Mi verrebbe da dire che si è ridotta quasi a un'attività di spionaggio e avrei voglia di aggiungere che oggi i veri sociologi negli Usa sono i pubblicitari, i quali studiano le capacità di spesa dei vari strati sociali e quindi le loro scelte di consumo.

Sai, quando andai per la prima volta negli Usa avevo in mente il sogno di Scipione scritto da Cicerone. Sognava che lo spirito filosofico greco si unisse allo spirito pratico romano. Io sognavo qualcosa di analogo tra pensiero filosofico europeo e pensiero sociologico americano, ma era solo un sogno.

Parliamo un po' del lavoro, che mi pare abbia perso di importanza nel dibattito politico-culturale anche in questa campagna elettorale.

Il lavoro è stato banalmente concepito come un puro strumento per procacciarsi i mezzi di sussistenza. Una visione riduttiva fatta propria anche dai sindacati. Pensa alla monetizzazione della nocività.

Voglio essere rozzo: è ancora il lavoro che produce ricchezza? E c'è ancora lo sfruttamento?

Certo è ancora il lavoro che produce ricchezza e c'è ancora lo sfruttamento, ma con la tua «rozzezza» rischi di rimanere ai tempi di Charlie Chaplin e della catena di montaggio e di non vedere i grandi cambiamenti che sono avvenuti nel processo capitalistico. Oggi le categorie nelle quali si dividevano i lavori sono saltate. Da una parte ci sono le macchine transfer che fanno parte del lavoro che una volta faceva l'operaio: oggi l'operaio ha soprattutto funzioni di controllo, è un supervisore. Siamo forse a un passaggio dall'operaio all'operatore.

C'è poi la questione dei cambiamenti del lavoro, non è più solo questione di lavoro flessibile, quanto di lavoro occasionale. La fabbrica nuova non è più la vecchia Mirafiori, spesso è diffusa nel territorio.

Così dall'altra parte non solo non c'è più la presenza del padrone e neppure del manager come era ancora ai tempi di Valletta, che si riconosceva sempre subalterno agli Agnelli. Ora - anche in Italia dovremmo impararlo - c'è il chief executive officer, che comanda, guadagna moltissimo, non ha nessun rapporto di fedeltà con l'impresa e non tiene in nessuna considerazione il padrone, che il più delle volte è rappresentato da un popolo di azionisti dispersi, che guardano più agli andamenti di borsa, che ai risultati produttivi dell'impresa.

Tutto questo - a mio parare - funziona in America, ma in Europa è un disastro. In America - mi hanno telefonato stamane - Bush, che è Bush, vuole dare la cittadinanza a undici milioni di ispanici, in Italia invece siamo alla Bossi-Fini e in Europa non è tanto meglio.

Passiamo ad altro, ma non tanto. Nel tuo libro sul capitalismo, dici che è l'unico sistema sociale ormai esistente. Per un verso corrisponde alla realtà, ma mi sembra un cedimento, anche culturale. Ha veramente vinto il capitalismo?

Sì il capitalismo ha vinto, ma è una vittoria «pirrica». Ti ricordi la frase di Pirro? «Un'altra vittoria così contro i romani e potremo tornarcene a casa».

La vittoria del capitalismo sul socialismo è indubitabile: il capitalismo produce ricchezza, il socialismo distribuisce ricchezza, ma siccome non la produce è un fallimento. Gorbaciov mi ha detto che il fallimento del socialismo sovietico era «inevitabile».

Ma oggi che succede?

Oggi - i marxisti hanno ancora una volta perso il treno - c'è la finanziarizzazione dell'economia nei paesi ricchi: la produzione la fanno gli altri, gli iloti dei paesi che cercano di raggiungere il capitalismo.

Perché dici che i marxisti hanno perso il treno?

Perché fra le tante cose che hanno dimenticato hanno dimenticato pure Hilferding e il suo Capitale finanziario. Oggi il comando capitalista sta nella finanza e i marxisti - ma forse esagero - si occupano ancora della produzione. Non hanno capito che il capitalismo è Proteo (lo diceva anche Franco Rodano). Cambia continuamente sotto le tue mani e diventa insuperabile perché supera sempre se stesso. I marxisti dovrebbero essere più attenti a Marx che, quando ancora i lavoratori erano artigiani, aveva anticipato la venuta della classe operaia.

Concludiamo, quale è il tuo giudizio sulla nostra società?

E' una società saturnina che alleva i suoi figli, li manda a scuola, gli fa fare anche i master e poi li ammazza, li divora.

La conversazione continua, ma sulla società «saturnina» mi fermo. Del resto se ne parlerà ancora. Franco Ferrarotti, come dicevo è un vulcano, e niente affatto in sonno.

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