«Di quale caduta Grillo è sintomo? Di un immane dislocamento tellurico nelle democrazie odierne, che sposta i poteri dagli Stati verso entità incontrollate. Non solo verso l’Europa ancora flebile, ma verso la finanza-mondo e mercati senza regole».
La Repubblica, 5 febbraio 2014
SON molti a turbarsi, e con ragione, per le offese del Movimento 5 Stelle ai rappresentanti dello Stato. Per la misoginia che colpisce il Presidente della Camera, per il «boia» gridato al Capo dello Stato. Per i libri bruciati in immagine di Corrado Augias, accusato di troppa e incongrua violenza critica. Ma forse è venuto il momento di analizzare quel che sta sotto la pentola di tanto caos. Di capire la fiamma che la surriscalda. Grillo infatti non è la causa del caos. Ne è il prodromo, il sintomo. Se non esaminiamo questi sottosuoli resteremo coi nostri sentimenti: di tristezza, di nudità politica. Alla ferita non sapremo dare un nome, continueremo a pescare solo nel passato. Sintomo, ricordiamolo, significa anche caduta, e comunque la segnala.
Di che cosa, di quale caduta Grillo è sintomo? Di un immane dislocamento tellurico nelle democrazie odierne, che sposta i poteri dagli Stati verso entità incontrollate. Non solo verso l’Europa ancora flebile, ma verso la finanza-mondo e mercati senza regole. La crisi scoppiata nel 2007 ha acuito questo sisma enormemente. Le democrazie ne sono travolte: specie quelle guastate da corruzione, cleptocrazia, mafie con cui occultamente si patteggia. Proprio in questi giorni un rapporto della Commissione Ue ci accusa. Il costo della nostra corruzione è di 60 miliardi l’anno: 4% del pil, metà del costo della corruzione in Europa. Ma ovunque le democrazie degenerano, come spiega Guido Rossi sul Sole 24 Ore: l’effetto inevitabile delle disuguaglianze legate alla crisi «è la svalutazione del potere legislativo e la riduzione degli Stati a semplici mediatori.(...) La più evidente conclusione rivela l’impotenza di ogni singolo Stato di risolvere una crisi sregolata da un disordine di globalizzazione a mosaico, che porta le singole imprese o gli individui a operare un Jurisdiction Shopping ». È un fenomeno accertabile a occhio nudo. In alcuni paesi - Grecia, Portogallo, Cipro, Irlanda - chi oggi guida le scelte economiche è la trojka (Banca centrale europea, Commissione, Fondo monetario).
Princìpi costituzionali decisivi sono ovunque scavalcati. La Germania riesce a custodirli, ma isolandosi senza splendore. Altri paesi, colpevolizzati, sacrificano costituzioni e parlamenti in omaggio diretto o indiretto alle trojke. Nell’aprile 2013 la Corte costituzionale portoghese respinse quattro misure di austerità che violavano il principio di uguaglianza, e Bruxelles la tacitò. Le stesse elezioni son considerate un irritante. Scandalosa fu giudicata, nell’ottobre 2011, la volontà dell’ex premier greco Papandreou di indire un referendum sulle discipline della trojka. Così in Italia. Scopo primario della nuova legge elettorale è la governabilità, ripetono Pd, Berlusconi, Letta. Ma la governabilità «mortifica gravemente la rappresentanza», ha ricordato domenica Eugenio Scalfari.
In questo quadro si colloca la rivolta di 5 Stelle contro la ghigliottina cui è ricorsa Laura Boldrini. Anche se biecamente insultata, è lecito criticarla per aver decapitato il dibattito sul decreto Imu-Bankitalia. Il taglio operato dalla lama è un ennesimo segno del sisma: i parlamenti sono d’ingombro, e negati. Memorabili le parole di Mario Mauro (ministro della Difesa, destra di Alfano) giorni fa a Porta a Porta: «Questa legge elettorale non è contro i piccoli, ma contro un grande partito che oggi rappresenta l’impostazione tripolare del paese. È nata per far fuori Grillo », dunque l’opposizione.
Per questo è così importante che al caos risponda una politica non solo sentimentale, e non solo nazionale. L’alternativa è il predominio di interessi settoriali, anche se globali, radicalmente estranei alla nozione, cruciale in Europa, di bene pubblico. Il continente s’è unito nel dopoguerra proprio per creare uno spazio che consentisse agli Stati di salvare i loro patrimoni democratici, e anzi di potenziarli. Europa federale vuol dire assunzione di regole, stato di diritto. Il commercio, la finanza transnazionale, la moneta: impossibile governarli se l’Europa non ha una politica estera, e una democrazia piena. Altrimenti non è unione ma comitato d’affari e di lobby. Che questa sia la posta in gioco è dimostrato dal negoziato euro-americano sul nuovo Trattato commerciale transatlantico (Ttip): discusso segretamente da ristrette cerchie di esperti della Commissione Ue e del Ministero del Commercio Usa, senza partecipazione democratica. Stupisce che il Movimento di Grillo, sensibile da anni alla globalizzazione, dedichi al tema poca energia. Anch’egli pare concentrarsi sui sintomi della crisi, più che sulla crisi. Eppure, i pericoli del Trattato sono molteplici: quel che si cerca, è la completa libertà delle multinazionali di agire scavalcando le regole e gli standard di qualità che l’Europa impone al commercio di prodotti nocivi alla salute e al clima, e la cura di servizi pubblici come acqua o energia.
Queste regole son viste come «generatrici di problemi», «irritanti commerciali» ( trade irritants) dovuti a indebite interferenze del pubblico. Vanno aggirate da comitati e corti ad hoc (ecco lo shopping giuridico citato da Rossi). La tassa sulle transazioni finanziarie, esecrata da Usa e Fondo monetario, è tra i principali «irritanti». La minaccia che incombe è una sorta di Ilva globale, economica e democratica: prima viene la produttività, poi la salute dei cittadini; prima la governabilità, poi la rappresentatività e la dialettica governi-opposizioni. I fautori più settari del Trattato Europa-Usa vogliono imporre «l’eliminazione, la riduzione, la prevenzione di politiche nazionali superflue», scrive un loro documento. Superflue sono le leggi, le Costituzioni, la regolazione della finanza, la lotta per il clima.
Tutto questo in nome di un Progresso che arricchisce pochi e impoverisce i più. Che polverizza norme nate da anni di buona politica comunitaria. Opporre l’Europa a tali sviluppi significa tuttavia cambiarla alle radici: rinvigorire la sua rappresentanza democratica, darle più risorse (un bilancio in crescita, dunque poteri impositivi) per vincere la depressione con un New Deal dell’Unione. E significa rinvigorire la rappresentanza negli Stati, visto che tutti sono chiamati a trovare risposte: maggioranze, minoranze, governi, parlamenti. Tale dev’essere il nuovo patto costituzionale, non solo in Italia. Grillo lo sa. Nei suoi sette punti europei ci sono, oltre al referendum sull’uscita dall’euro, esigenze condivise da molti: no al pareggio di bilancio nella costituzione, sottrazione degli investimenti dal calcolo del debito pubblico, eurobond, finanziamento di agricolture biologiche, politiche comuni tra i paesi del Mediterraneo. Gli euroscettici inquietano, ma come non essere scettici di fronte a un’Unione che dovesse sacrificare le regole, il diritto, e i più poveri che quel diritto protegge!
Al momento dominano i conservatori, ma il futuro è in mano anche a chi chiede un Piano Marshall per l’Europa, come il leader della sinistra greca Alexis Tsipras. Nel 2012 lo
Spiegel lo definì eversore, ma per l’Unione è lievito. E di lievito abbiamo bisogno, perché riviva quel che disse Roosevelt nel ’32: «I nostri leader repubblicani ci parlano di leggi economiche - sacre, inviolabili, immutabili - che causano situazioni di panico che nessuno può prevenire. Ma mentre essi blaterano di leggi economiche, uomini e donne muoiono di fame. Dobbiamo essere coscienti del fatto che le leggi economiche non sono state fatte dalla natura. Sono state fatte da esseri umani. Quando - e non se - ne avremo la possibilità, il governo prenderà la guida per debellare la depressione». Se vogliamo «rompere il circolo vizioso» della sola austerity e coinvolgere meglio i cittadini nelle scelte, come ha detto Napolitano ieri a Strasburgo, l’Europa dovrebbe prendere la guida allo stesso modo.