La grande delega sul "federalismo fiscale" entrerà a regime nel 2016, fra sette anni. Occorre infatti riempirla di così tante cose da farla apparire, oggi come oggi, inconsistente: anche soltanto come legge che stabilisca principi e criteri direttivi. Neppure legge-manifesto, dunque, ma legge-scommessa che presenta almeno sette vuoti di sostanza. Quali sono questi sette peccati di omissione?
1. La indeterminatezza del "livello essenziale" delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che la legge dello Stato, secondo la Costituzione deve garantire "su tutto il territorio nazionale" (ma se questa è la punta della piramide, e se non c´è, tutto il resto poggia sul nulla: o no?).
2. La dubbia procedura per calcolare il costo standard delle prestazioni sociali, cioè, secondo lo stesso progetto, "l´indicatore rispetto al quale comparare e valutare l´azione pubblica" (ma se, a parere della Ragioneria generale dello Stato, vi sono "enormi difficoltà" per calcolare questo costo standard, come valutare il fabbisogno complessivo e gli obiettivi delle politiche pubbliche?).
3. La omessa indicazione delle "funzioni fondamentali" dei comuni e delle province (quelle funzioni che, in base alla Costituzione, devono essere "finanziate integralmente": ma se non si sa quali sono, come si fa a calcolare quanto costano?).
4. L´assenza di nuovi principi e regole per gli enti locali, cioè del "codice" delle loro autonomie (ma se non è chiara l´organizzazione essenziale di base, come se ne può calcolare capacità di entrate e di spese?).
5. Il mistero sui criteri e sugli effetti delle associazioni tra i piccoli comuni (il sistema fiscale è lo stesso per i micro-comuni e per le unioni intercomunali? E se è diverso, in che cosa lo è?).
6. La deficiente disciplina delle "città metropolitane" (si sa che, ope legis, anche Reggio Calabria è diventata una "metropoli": ma si può parlare di entrate e spese per soggetti territoriali "incompiuti"?).
7. La fuga dall´azzeramento o almeno dalla riduzione degli iniqui vantaggi fiscali delle cinque regioni speciali (non vale anche per esse la tutela dell´unità giuridica ed economica, "prescindendo dai confini territoriali dei governi locali", di cui parla l´art. 120 della Costituzione?).
Con queste omissioni, è persino inutile cercare nel progetto la risposta alle tre fondamentali domande che si pone ogni vero federalismo fiscale: chi fa cosa? quanto deve essere fatto? quanto costa farlo?
E´ vero. Il governo rimanda per alcuni di questi interrogativi a disegni di legge nel frattempo in preparazione. Ma a parte la bizzarria di questo mosaico legislativo, a formazione progressiva, in tempi incerti, se si va a leggere qualcuno di questi progetti "ulteriori" si scoprono aspettative deluse. Come per la strabiliante definizione delle "funzioni fondamentali" degli enti locali (capitale, come si è visto, per la tenuta territoriale di base) che suona così: "funzioni connaturate alle caratteristiche proprie di ciascuno tipo di ente, essenziali e imprescindibili per il funzionamento dell´ente e per il soddisfacimento dei bisogni-primari delle comunità di riferimento, anche al fine della tenuta e della coesione dell´ordinamento della Repubblica". E´ un singolare esempio di produzione di formule a mezzo di formule, di deleghe a mezzo di deleghe: oltretutto con possibilità di contraddizioni, di sovrapposizioni, di sconnessioni.
Una scommessa sul futuro, dunque, e una scommessa ad alto rischio. Privo di basi istituzionali e di prospettive contabili essenziali, un "federalismo fiscale" così concepito non avvia a soluzione né la "questione settentrionale" né la "questione meridionale". E può aprire una rilevante questione nazionale.
Statistici ed economisti ci hanno, infatti, avvertito, da tempo, di due cose. La prima, è che la quota di spesa e di tributi già ora sotto la responsabilità diretta degli enti territoriali corrisponde a quella degli Stati federali (come Spagna e Germania). In uno Stato indebitato come il nostro è il massimo possibile (se no, chi pagherà il debito pubblico italiano?). La seconda cosa è che le regioni ordinarie del nord ricevono già in spesa sociale per abitante più di quanto ricevono le regioni ordinarie del sud. Da questi due dati non contestati risulta che la prospettiva di un miracoloso "ritorno" di risorse al nord è assai fantasiosa. Tutto l´esaltato armamentario di sanzioni contro gli amministratori responsabili di sperperi può servire ad un uso corretto di quel "di più" che le regioni del sud ricevono rispetto a quanto versano al fisco. Ma questo residuo fiscale è poco significativo al fine di una consistente redistribuzione geografica del denaro pubblico.
Ecco: tutta la propaganda per un riequilibrio "settentrionale" può essere fondata solo se certi meccanismi "occulti" del progetto rivelassero, alla fine, il volto di un federalismo ferocemente competitivo: malgrado ogni affermato principio di perequazione e di solidarietà nazionale. E il sospetto si fonda su tre punti.
In primo luogo, sulla possibilità che il calcolo dei livelli essenziali per le prestazioni sociali sia compresso a quote minimali. Che questo pericolo ci sia, lo suggerisce quella norma del progetto che fissa un "livello minimo assoluto" per le aliquote fiscali che dovrebbero assicurare "il pieno finanziamento del fabbisogno" (art. 8, comma 1, g). In secondo luogo, sulla prospettiva, assai sottolineata , di ricorrere a politiche fiscali di vantaggio (da poco ammesse dall´Unione europea) non solo per le zone storiche di sottosviluppo del Paese ma per tutte le aree "sottoutilizzate" (art. 2, comma 2, mm). In terzo, e più importante, luogo, sulla possibilità per le regioni – in un quadro di sostanziale tenuta del principio di territorialità e senza vincoli di destinazione – di ampie manovre delle aliquote fiscali, di esenzioni, deduzioni, detrazioni (art. 7, c).
Sono tre sospetti che pesano sull´equilibrio complessivo del sistema che si introduce e che, se fondati, porrebbero in crisi lo stesso principio di eliminazione delle disuguaglianze territoriali fondato sugli articoli 3 e 119 della Costituzione. Certo, nessuno può ragionevolmente difendere le scandalose disparità di spesa sanitaria in Lazio, Campania, Molise e Sicilia, né la pletora di impiegati pubblici nelle regioni del sud (almeno il dieci per cento in più di ogni altra regione italiana). Ma davvero si pone rimedio a questa malamministrazione facendo più forti le regioni forti e recidendo il cordone con la zattera del Mezzogiorno?
Il che può avvenire: per le cose che si sono dette e, in più, per la debolezza e l´equivocità con cui il progetto traduce le procedure di perequazione solidale, fissate in Costituzione. Forse sarebbe più intelligente e più efficace pensare a forme di controllo effettivo, affidate ad un Istat "costituzionalizzata", connessa con le diramazioni regionali della Corte dei conti: in un sistema compartecipato di verifiche che veda in Parlamento il protagonismo delle regioni "che danno" (ma l´esposizione per 35 miliardi ai rischi della finanza derivata non è stata solo di territori del sud…).
Creare in Italia cunei di diseguaglianza, giuridicamente legittimati – che approfondiscono quelli esistenti di fatto – non è nell´interesse di nessuno: e meno che meno del nord. E qui si intende un interesse meramente mercantile (non patriottico e neppure europeista: che pure potrebbero essere richiamati con una certa fondatezza).
Comunque, il progetto, per ora indefinibile, ma convenzionalmente detto di "federalismo fiscale", sta per arrivare in porto (sia pure solo per aprire i suoi moltissimi cantieri). Ci si è accaniti, con lunga elaborazione (aperta, lodevolmente, anche all´opposizione) sulle problematiche formule fiscali e sulla loro doppia lettura. E´ difficile però che queste siano messe "in sicurezza" senza serie fondamenta istituzionali. Siamo in uno Stato che, da quando è nato, cerca la difficile combinazione tra unità e autonomie. Sui soldi è ancora più difficile, ma è un discorso da fare.