Finalmente è arrivata la soluzione agognata per risolvere l'emergenza rifiuti in Campania: dieci nuove discariche e qualche inceneritore con recupero energetico (il termine termovalorizzatore, si sa, non ha senso scientifico o tecnico, neanche nelle regolamentazioni comunitarie). Il problema è che questa nuova soluzione assomiglia parecchio alle vecchie: quando si è insediato il Commissario De Gennaro, cinque mesi fa, la questione era sgomberare le strade di Napoli, e per farlo si è cercato di aprire nuove e vecchie discariche (non riuscendovi sempre), di mettere in funzione nuovi inceneritori (non riuscendovi mai), di esportare i rifiuti in Paesi più civilizzati (riuscendovi quasi sempre), dove gli scarti sono considerati risorse. Il problema è che questa soluzione assomiglia molto a scopare la polvere sotto il tappeto per avere la casa pulita.
In nessuna parte del mondo le discariche eliminano i rifiuti, anzi, li concentrano, con problemi ambientali che è ormai anche inutile approfondire: infiltrazioni nelle falde, percolati, liquami, per non parlare del maleodore. Senza contare che aprire nuove discariche sarebbe contro la legge nazionale e anche contro le normative comunitarie. E in nessuna parte del mondo bruciare rifiuti è un sistema per eliminarli, perché, come dovrebbe essere noto, in natura nulla si può distruggere e dunque le tonnellate di rifiuti si trasformeranno in ceneri (spesso velenose) e polveri (spesso tossiche). Certo, un inceneritore con recupero di energia e di calore non è un tabù contro cui combattere guerre di religione - ci sono problemi molto più devastanti, come il traffico cittadino -, ma è un controsenso energetico, perché per fabbricare oggetti e materiali si è impiegata molta più energia di quella che se ne ricava bruciandoli. E poi in Italia ci sono già abbastanza impianti: costruirne di nuovi può significare scoraggiare l'unica vera soluzione al problema dei rifiuti, la raccolta differenziata e il riciclaggio (un folle piano regionale siciliano prevede addirittura di bruciare il 65% dei rifiuti, come a dire condannare la raccolta differenziata a non superare mai il 35%, quando in tutta Europa si punta al 70-80% e a San Francisco si va verso l'opzione rifiuti-zero).
Se si fosse cominciato - alla prima emergenza di 15 anni fa - con un piano integrato di raccolta differenziata dei rifiuti campani, non saremmo a questo punto. Se lo si fosse fatto cinque mesi fa, avremmo ora qualche prospettiva, ma continuare a pensare che la questione possa risolversi con discariche e inceneritori vuol dire non aver compreso che, così, i rifiuti si accumuleranno di nuovo, e saremo alle solite, solo avendo perso ancora del tempo. Come da gennaio a oggi. E come dimostra il fatto che aver sgomberato oltre 200.000 tonnellate di pattume non ha risolto un granché. Ma sono i numeri che parlano: a Torino - una grande città del Nord i cui cittadini non sono antropologicamente diversi dai napoletani - nel 2003 si raccoglieva in maniera differenziata solo il 20% dei rifiuti. In cinque anni si è passati a oltre il 40%, attraverso campagne di educazione ambientale fino nelle scuole promosse dall'amministrazione comunale e dalla municipalizzata. Pensiamo a Napoli: se si fosse recuperata almeno la frazione umida (residui di pasti, bucce) avremo avuto il 30% in meno di rifiuti, cioè 75.000 tonnellate di meno all'inizio dell'emergenza. Cioè più spazio nelle discariche (dunque meno discariche) e meno commercio di rifiuti, dunque più risorse da destinare al riciclaggio.
Riciclare raddoppia la vita dei materiali, permette di spendere meno energia e, dunque, di inquinare di meno e fa in modo che si aprano meno miniere e cave. Se poi le ditte si impegnassero a ridurre definitivamente gli imballaggi, usando, per esempio i fogli di plastica termosaldati, che, una volta sgonfiati, si riducono a una pallina di qualche centimetro; se la distribuzione permettesse di acquistare i prodotti sfusi a peso e non a confezione; se le municipalizzate non si scomponessero in migliaia di subappalti incontrollabili, allora i nostri sforzi personali sarebbero premiati e non staremmo qui a temere di finire come a Manila, nella cui discarica vivono gli 80.000 abitanti di un posto chiamato Lupang Pangako (letteralmente «terra promessa»), fra commerci di ogni tipo, contrabbando e riciclaggio su commissione. Ma anche per questa volta non è aria.