«È trascorso oltre un anno dall’inizio delle operazioni Usa in Siria (quasi 3mila bombardamenti), un anno e 4 mesi da quelle in Iraq (altri 3.500) e lo Stato Islamico resta – più o meno - dov’era».
Il manifesto, 28 novembre 2015 (m.p.r.)
Dodici morti, tra loro cinque bambini: è il bilancio del raid che ieri ha colpito la scuola Heten, a Raqqa. Da quando la città siriana è stata eletta «capitale» del Califfato, la scuola era usata come base dai miliziani. Per ora nessuno sa dire che bandiera fosse stampata sul jet responsabile dell’attacco, la francese, la statunitense o la russa. Si aggiungono alle centinaia di civili vittime della coalizione.
A far uscire le loro storie provano attivisti e organizzazioni, a volte i familiari. È quello che ha fatto Muawiyya al-Amouri, padre siriano di sei figli, uccisi ad agosto a Atmeh, città settentrionale vicino Idlib. Ha denunciato la morte dei bambini in un raid Usa, mai reso noto se non giovedì quando il commando generale Usa ha ammesso di aver bombardato nelle vicinanze di Atmeh. Il target era una postazione dell’Isis: «La coalizione spende molto tempo per individuare i target, assicurare la massima efficacia e minimazzare le potenziali vittime civili», ha detto il portavoce Tim Smith.
Rispondono analisti e attivisti: ad Atmeh l’Isis non c’è Quelle morti risollevano una questione in ombra: cosa e come i raid colpiscono Daesh. Con quali informazioni di intelligence e con quanta precisione. È trascorso oltre un anno dall’inizio delle operazioni Usa in Siria (quasi 3mila bombardamenti), un anno e 4 mesi da quelle in Iraq (altri 3.500) e lo Stato Islamico resta – più o meno - dov’era. Si è ritirato da Sinjar, su pressione della controffensiva peshmerga e dei kurdi siriani delle Ypg; ha perso Kobane e parte del distretto di Hasakah dietro le operazioni congiunte di esercito siriano e combattenti kurdi; ha perso il collegamento diretto tra Raqqa e la seconda «capitale», l’irachena Mosul, dopo l’intervento di Erbil. Ma continua a controllare ampi territori, un terzo dell’Iraq e un terzo della Siria: una catena che parte dal confine nord occidentale tra Siria e Turchia, passa per Raqqa e arriva all’Iraq orientale, Fallujah e Ramadi, e a quello meridionale, dove ha postazioni vicino alle frontiere con Giordania e Arabia saudita. Così mantiene aperto il collegamento tra le due realtà – l’irachena e la siriana – tramite il valico di Al Qaim, lungo l’Eufrate, trasferisce uomini e armi e tiene in piedi i traffici commerciali, il sistema di contrabbando e quello amministrativo.
È uno dei motivi per cui Mosca e Washington concentrano buona parte della forza di fuoco contro camion di petrolio: l’Isis si adatta, dice il ricercatore siriano al-Hashimi, e ora non usa più camion da 36mila litri, ma veicoli più piccoli, da 4mila. E, aggiunge, i miliziani si sono spostati da zone residenziali e campi di addestramento in bunker e tunnel sotterranei. Nei raid della coalizione sono morti oltre 20mila miliziani, ma altrettanti ne sono entrati via Turchia per la quasi totale incapacità di controllare gli spostamenti da fuori e di reagire alla propaganda islamista. Sono stati distrutti meno di mille veicoli militari, a dimostrazione che manca un elemento fondamentale: informazioni di intelligence credibili che informino sulla posizione dei miliziani.
Non avendo uomini sul terreno, se non qualche centinaio di consiglieri militari, e continuando ad affidarsi ai gruppi di opposizione moderata ad Assad, gli Stati uniti sono rallentati, vanno alla cieca. Tanto da decidere di appoggiarsi a chi i risultati li ottiene: i kurdi siriani che hanno fondato un nuovo fronte insieme ad assiri e arabi, le Forze Democratiche. Va meglio a Mosca che dalla sua ha l’esercito governativo e i servizi segreti di Damasco. I risultati si vedono: a due mesi dal lancio dell’operazione russa, le truppe del presidente Assad non hanno sfondato, ma sono avanzate a nord di Latakia (verso l’obiettivo principe, Aleppo) e al centro, verso Palmira e nei dintorni di Homs. La presenza più capillare di uomini collegati direttamente o indirettamente a Damasco garantisce una maggiore precisione. La stessa a cui anela la Francia: giovedì Parigi e Mosca hanno annunciato uno scambio regolare di informazioni tra aviazioni.
Dall’altro lato del confine del «Califfato», in Iraq, dopo la strategica vittoria a Sinjar il resto della controffensiva anti-Isis è in stallo: a Ramadi, capoluogo dell’Anbar, calda provincia sunnita, le forze governative irachene non sfondano. Hanno ripreso il parziale controllo di alcuni quartieri – secondo l’esercito la metà – della città e bloccato il ponte usato dall’Isis per i rifornimenti. Ma, mentre i civili pagano la rappresaglia degli islamisti che stanno distruggendo decine di case per vendetta, l’impressione è che non si riesca ad avanzare con regolarità. A farlo sono le milizie sciite legate all’Iran e in contrasto con i kurdi a Kirkuk. Tensioni interne che lasciano le operazioni per la liberazione di Anbar e, a seguire, Mosul ancora solo sulla carta.