«C’era anche la “criminalità del potere”. Quei segmenti della classe dirigente (politica e imprenditoriale) della massoneria che con la mafia intrattengono rapporti occulti di reciproco interesse». il Fatto Quotidiano, 24 maggio 2017 (p.d.)
La storia di Giovanni Falcone è nota. Si può sintetizzare contrapponendo una giusta gloria post mortem, agli ostacoli – seminati con iniqua strategia – che lo intralciarono in vita. Vediamone alcuni.
Si sostiene che il Csm avrebbe violato le regole se avesse nominato a capo dell’ufficio istruzione (dopo Caponnetto) Falcone invece di Meli. Falso. Oltre alla regola gerontocratica dell’anzianità – che premiò Meli ancorché fosse digiuno di processi di mafia – ne vigeva un’altra. Quella della professionalità (o delle attitudini specifiche), stabilita dal Csm con circolare del 15 maggio 1986 espressamente riferita agli uffici di “frontiera antimafia”. La regola difatti fu applicata per la nomina del Procuratore di Marsala, preferendo Borsellino a un magistrato più anziano ma inesperto di mafia. Poi fu inaspettatamente calpestata per Falcone. Con un corredo indecoroso di giravolte e tradimenti.
Tra le accuse più insinuanti scagliate contro Falcone, per infangarlo e delegittimarlo, c’era quella di “protagonismo”. Nominare lui sarebbe stato un affronto a tutti i magistrati che ogni giorno sfangavano in silenzio. Un falso (strumentale), che ricorda la storia di quando le donne portavano il velo. Allora erano tutte belle, ma quando il velo cadde si cominciarono a constatare delle differenze. Un po’ quel che è successo per la magistratura. Quando i giudici non davano “fastidio”, erano tutti bravi e buoni. Ma quando hanno preso a dare segni di vitalità e indipendenza, “pretendendo”di esercitare il controllo di legalità anche verso obiettivi prima impensabili, ecco scatenarsi le accuse di protagonismo.
Una variante è l’accusa di gigantismo: aver costruito un “maxi-processo”per la smodata ambizione di attirare la massima attenzione e finire sempre più spesso sotto i riflettori. Falso. Il processo era “maxi” in quanto vergognosamente “maxi” era l’impunità di cui Cosa Nostra aveva goduto per decine e decine di anni, qualche migliaio di delitti, centinaia e centinaia di capi e “picciotti”. L’emergere, una buona volta, di questa “montagna di merda” (copyright Peppino Impastato), ebbe come logica e obiettiva conseguenza un processo grande come una montagna. Maxi, appunto.
Falcone era nel mirino di Cosa Nostra da sempre. Sapeva che sarebbe stato ucciso, ma non ha mai smesso di fare il suo dovere. La situazione precipita per il combinato effetto di due fattori, ciascuno esiziale per Cosa Nostra: la conferma definitiva delle condanne del maxi in Cassazione (prima specializzata nel praticare “l’ammazza-sentenze” di mafia); le iniziative che Falcone aveva avviato sfruttando le opportunità del lavoro ministeriale, con l’obiettivo di estendere a tutto il territorio nazionale i parametri – specializzazione e centralizzazione – sperimentati a Palermo. Creando un’antimafia moderna (Procura nazionale e relativa banca dati; Procure distrettuali; Dia; legge sui pentiti; 41 bis) che funziona ancora oggi.
Alla “novità” della Cassazione e alla “ostinazione” di Falcone (cacciato da Palermo perché si occupasse d’altro, ma per nulla disposto a mollare) la mafia reagisce con rabbiosa ferocia. Prima l’omicidio Lima, accusato di non aver saputo impedire la pessima conclusione del processo. Poi le stragi. Una rappresaglia contro Falcone (e Borsellino) per i risultati devastanti del maxi. Nello stesso tempo, un monito sanguinario contro chi volesse riprendere il loro metodo di lavoro.
Ma Falcone e il pool non erano odiati solo dai mafiosi. C’era anche la “criminalità del potere”. Quei segmenti della classe dirigente (politica e imprenditoriale) della massoneria che con la mafia intrattengono rapporti occulti di reciproco interesse. Anche questa “criminalità del potere” considerava il pool un pericoloso nemico. Perché si era vista fotografata in un passo dell’ordinanza-sentenza del 1985 (conclusiva del primo maxi-processo), che denunciava “una singolare convergenza fra interessi mafiosi e interessi attinenti alla gestione della cosa pubblica, fatti che non possono non presupporre tutto un retroterra di segreti e inquietanti collegamenti che vanno ben al di là della mera contiguità e che devono essere individuati e colpiti se si vuole davvero voltare pagina”. E che non fossero solo proclami lo dimostravano le iniziative concrete contro Ciancimino padre, i cugini Salvo e i Cavalieri del lavoro di Catania. Di qui dunque un torbido coacervo di interessi criminali convergenti, che alla fine riuscì a isolare e “incastrare” Falcone. Fino a morire.