«Sbagliamo bersaglio accusando i mercati-padroni: sono i politici a non essere padroni di sé, a non vedere che loro sono la quaestio, il problema e l’onere».
La Repubblica, 27 marzo 2013
NUNC dimittis servum tuum: comincia così il cantico di Simeone, l’ebreo giusto, appena vede Gesù presentato al Tempio. La prima parola che dice, rivolgendosi a Dio, è dimissione. Antiche consuetudini si sfanno, l’attesa messianica finisce perché il messia è lì, lo sta tenendo fra le braccia. Si entra in un’altra orbita, un cammino affatto diverso inizia all’insegna di quella che Roland Barthes ha chiamato: disoccupazione di spazi, peregrinatio in stabilitate. Oltre il Tevere, proprio questo sta accadendo nella Chiesa. Scossa dalla corruzione, orfana di luce, ridotta a lobby, la Chiesa tasta come cieca le vie e scopre che non ce ne sono due ma solo una, perché l’altra s’inabissa: la via è il trono vuoto, perché lo occupi chi sappia far proprio il nunc dimittis, spogliandosi di potere e di mitre maestose. Un unico filo lega le dimissioni di Benedetto XVI il 10 febbraio e la nomina, il 13 marzo, di Papa Francesco: un mese, tutto all’insegna della «disoccupazione di spazi». È significativo che il nuovo Pontefice disdegni gli ori di cattedrali e paramenti. Il papato girava a vuoto, e il ricominciamento è possibile a condizione di mettere in questione se stessi, radicalmente. «Quaestio mihi factus sum», diceva Agostino: io stesso son divenuto per me problema, peso. Memore della semplicità oltre che della povertà di San Francesco, il Papa parla ai cristiani con parole inattese, non di padre pontificante ma di servo: «Pregate voi per me». Non si sa quali effetti sortirà questo mese di ostentato trono vuoto; si può solo intuire che per sopravvivere, la Chiesa doveva passare di qui.
È strano come certe parole in certi momenti colorino ogni pensiero, ogni dire. In queste ore sono come un metro, che permette di misurare la cecità della politica, delle sue istituzioni: in Italia e anche in Europa. La stasi di ambedue cos’altro è, se non incapacità di distinguere il bivio che hanno di fronte, e attaccamento alle inerti abitudini descritte da Beckett: «L’abitudine è un patto sottoscritto dall’individuo col suo ambiente. È la garanzia di una tacita inviolabilità, il parafulmine della sua esistenza. L’abitudine è il ceppo che incatena il cane al suo vomito». Si chiama anche
routine:letteralmente vuol dire piccola via, ripetutamente percorsa quando non si osa la grande. Imboccare viuzze significa non rinunciare al potere, starsene immobili, non tollerare l’incursione di sfide o giudizi: tenerselo stretto, il potere, come il Presidente del Senato che ritiene inammissibili le critiche d’un solo giornalista. In Germania Est si racconta che tale fu l’ordine che le autorità sovietiche diedero ai governanti comunisti, quando cadde il muro di Berlino: «Rientrate in voi stessi, fatevi di ghiaccio».
L’Italia fa questo, da anni: ha congelato Mani Pulite, e ogni chiarimento, correzione, pur d’evitare la trasformazione di sé. Anche il movimento Cinque Stelle, che pure ha vinto chiedendo una mutazione della società e dei partiti, è preda di una sorta di paralisi. Ilvo Diamanti ha spiegato, lunedì su Repubblica, l’impasse di una convivenza tra anime contrarie, innovative e conservatrici. L’uscita dal sistema prevale su ogni miglioramento concreto, ottenibile subito, svigorendo la forza stessa che fece nascere, attorno al bene pubblico, il movimento. È il rischio del M5S: occupare un trono postazione, in attesa dei tempi in cui il Messia verrà col suo Regno. Non lo sfiora il sospetto che il Regno sia già qui, che l’attesa sia un escamotage. Che le vie non siano due ma una: rinunciare all’isolamento splendido del trono, aprire un varco, proporre a chiare lettere il nome di un suo papa Francesco. Altrimenti ti chiamerai movimento ma vecchio partito rimarrai: con le sue abitudini da recinto, con la sua sconnessione dalla cittadinanza attiva che ti ha fatto re. Quel che urge non è la
prorogatio dell’esistente – una delle tentazioni di Cinque Stelle – ma la declaratio con cui Benedetto XVI ha innovato, spogliandosi del proprio scanno: le forze che ho «non sono adatte a esercitare in modo adeguato il ministero ». Alcuni hanno detto: «è la fine». Era un inizio invece, era rinuncia a parte di sé per far spazio al nuovo. Così per i politici: sono a un bivio, e chi serve i propri ideali diminuisce un po’ se stesso, coglie il momento se si presenta. Apprende la destrezza astuta che prolunga il carisma: fin da subito mostra che entrare in un’altra orbita politica è possibile. E se non a Dio, chiede alla coscienza: «Dimettimi, esiliami dall’istinto abitudinario che mi abita».
Secondo l’economista Albert Hirschmann, è così che le istituzioni si riformano: mescolando l’energia ultimativa dell’uscita, dell’exit, al lievito della parola (voice),che sbalestra la politica da dentro. Proprio di quest'amalgama hanno bisogno gli italiani per superare la stasi, e l’Europa per vincere una crisi che rivela la propria cecità, compresa la cecità alla democrazia. Anche nell’Unione si tratta di indicare il trono vuoto, i sovrani finalmente politici e i parlamentari forti che devono riempirlo. Da quando l’Euro trema, l’Unione s’aggrappa alla viuzza di cure che la squilibrano, l’avvelenano. Sbagliamo bersaglio accusando i mercati-padroni: sono i politici a non essere padroni di sé. A non vedere che loro sono la quaestio, il problema e l’onere. Non è l’Euro traballante che viviamo ma un più vasto sisma. I politici l’occultano, passano il tempo disputando su dilemmi esistenziali: esiste l’Unione? siamo contro? per? In tempi prosperi la domanda serviva, ma oggi lo spettro che s’aggira e impaura è la crisi, non l’antieuropeismo che la crisi secerne. Oggi la disputa che conta, e però è elusa, deve concernere il da fare, le alternative da tentare, perché l’Unione funzioni e ritrovi l’idea originaria di una comunità di cittadini padrona di sé. Come l’Italia del dopo-voto, l’Europa è prigioniera di quella che gli inglesi chiamano politics (il gioco fra partiti, poteri) ed è impreparata alla policy, alla scelta fra molte opzioni di una linea: in economia, nella ridefinizione della statualità, anche in politica estera.
Il caso dei marò è stato rivelatore. Un governo d’Europa ha mostrato di non sapere cosa sia l’India, oggi: con i suoi tribunali, con una democrazia più che sessantenne. Ha reagito come la vecchia Europa colonialista, giocando a birilli con Nuova Delhi come Chamberlain quando disse dei cecoslovacchi invasi da Hitler: «È una nazione lontana di cui non sappiamo nulla». Così enorme è la svista, che l’esercito si ribella al timone politico. È bene che il ministro Terzi si sia dimesso. Lo stesso dovrebbe fare il capo di stato maggiore della Difesa, Luigi Binelli Mantelli: con inaudita prevaricazione, forte probabilmente dell’appoggio di Terzi, ha preteso sabato che «la farsa si concluda quanto prima, e i nostri fucilieri, funzionari in servizio di Stato, siano al più presto riconsegnati alla giurisdizione italiana». Nessun accenno al fatto che i marò sono pur sempre accusati d’aver ucciso due marinai indiani scambiati per pirati, e che all’India fu promesso di non tenerli in Italia. È uno dei tanti casi di insipienza dei sovrani europei.