«Nel caso della scuola come in quello dei partiti, la rinascita della fiducia dei cittadini nella politica passa per la rinascita del rispetto del valore del pubblico».
La Repubblica, 30 maggio 2013
LE RECENTI consultazioni amministrative e referendarie testimoniano che esiste un bisogno insoddisfatto di politica. Un bisogno che i partiti sembrano incapaci di comprendere. Non è l’anti-politica il problema, ma la non-politica. Per questo incolpare gli elettori, come ha fatto Beppe Grillo, è, oltre che irragionevole, bizzarro. Poiché è l’assenza di progetti e di idee, di credibilità e di coraggio dei partiti che allontana dai seggi, non l’avversione dei cittadini per la politica. Essi cercano una merce che non trovano sul mercato. Il giudizio deve essere diretto ai soggetti che si incaricano di mediare i bisogni degli elettori senza esserne capaci. Ciò che viene chiesto e manca non è solo la risoluzione dei problemi ma, prima ancora, l’interpretazione dei problemi. La carenza politica e della politica sta qui. Ed è una carenza grave che ha a che fare con una cronica mancanza di studio, di analisi, di esame non pregiudiziale delle trasformazioni della società e delle strategie che i principi democratici e i diritti suggeriscono di seguire o di non seguire.
Il partito sul quale molti italiani cercavano l’àncora per una sicura alternativa, il Pd, è più di altri vittima di questa sindrome da sopravvivenza che porta i suoi leader da un lato a farsi promotori di proposte radicali e dall’altro a persistere nella difesa testarda dello status quo. Due comportamenti opposti/uguali che denotano un’attitudine a inseguire l’opinione dominante piuttosto che interpretarla secondo principi e diritti.
Insistere per esempio come è avvenuto a Bologna sulla difesa d’ufficio della sussidiarietà senza voler esaminare o comprendere la differenza che c’è tra finanziare con i soldi pubblici i servizi sociali e i servizi educativi è segno di questa incomprensione della relazione tra principi/diritti e problemi da risolvere. Formare i cittadini, educarli cioè a vivere con gli altri nel rispetto delle diversità dovrebbe suggerire di pensare che le istituzioni educative non possano essere trattate alla stregua dei servizi di assistenza sanitaria o sociale. È per questa ragione, del resto, che i costituenti insistettero nel tenere separato, non commisto, il pubblico dal privato (cosa che non fecero quando si trattava di servizi alla salute per esempio). Non vedere questa specificità della scuola (anche quando è scuola materna) comporta non dare peso ai diritti eguali e quindi proporre soluzioni errate o insoddisfacenti. La difesa dello status quo – delle politiche già esistenti perché esistenti - è, questo sì, un esempio di anti-politica, di burocratica mancanza di saggezza politica.
Al polo opposto c’è l’atteggiamento di voler rovesciare l’esistente di trecentosessanta gradi nel tentativo di inseguire l’opinione corrente. Questo è il caso della proposta del governo sull’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti. La proposta dovrebbe articolarsi su due pilastri, trasparenza (degli statuti e dei bilanci dei partiti) e risorse; e dovrebbe mirare a due scopi: “semplificare” e “privatizzare”. Semplificazione delle procedure per le erogazioni liberali dei privati in favore dei partiti; introduzione dei meccanismi di natura fiscale fondati sulla libera scelta dei contribuenti a favore dei partiti; e, infine,la possibilità di prevedere modalità di sostegno “non monetario”, per esempio donando “strutture” e “servizi”. All’insegna della privatizzazione: nel caso delle scuole materne come in quello dei partiti.
Anche in questo caso, senza prestare attenzione al bene in questione: un bene pubblico non solo per il servizio che eroga ma prima ancora per la sua specifica identità. Sappiamo inoltre quanto lasca (e insincera) sia la politica del dono nelle società di mercato – donare per avere in cambio non è donare. Soprattutto quando il ricettore è il partito, un mezzo per gestire il potere dello Stato, condizionare decisioni su leggi e regolamenti. Ne sanno qualcosa gli Stati Uniti che hanno un sistema nel quale si prevede il dono sia in spese vive (pubblicità televisive, cene elettorali, consulenze, ecc.) che in denaro. Studiosi e giuristi stanno da anni intensificando il loro impegno affinché questa politica dissennata sia fermata, anche perché la privatizzazione dei finanziamenti ai partiti ha portato le spese elettorali a cifre da capogiro e innescato logiche non egualitarie macroscopiche.
La proposta di cui si discute da noi in questi giorni sembra purtroppo seguire questa logica privatistica. Il governo vuole, con più di una giustificata ragione, abrogare l’attuale sistema dei rimborsi elettorali. Non tuttavia per sostituirlo con un nuovo sistema virtuoso e saggio di finanziamento pubblico. Propone invece il ricorso al sovvenzionamento privato diretto: se ami il tuo partito lo finanzi; questa la logica. Ovviamente i poveri cristi, di cui l’Italia comincia a essere molto popolata, daranno o nulla o briciole. Si tratta di un approccio perverso perché dà priorità alle possibilità economiche. Mentre la politica democratica vuole l’eguale distribuzione del potere e promette di bloccare il travaso delle diseguaglianze economiche nella sfera politica. Pensare di bonificare i partiti dalla corruzione facendone agenzie di cittadini e/o gruppi privati è come cadere dalla padella alla brace.
Del resto, non basta togliere soldi pubblici per togliere la corruzione. La nostra storia lo dimostra. La legge sul finanziamento pubblico fu introdotta nel 1974 per sostenere le strutture dei partiti presenti in Parlamento e fu voluta e approvata sull’onda degli scandali. Attraverso il sostentamento diretto dello Stato, si disse, i partiti non avrebbero avuto bisogno di collusione con i grandi interessi economici. Ma si trattò di una pia illusione perché gli scandali non si fermarono come mostrano le vicende Lockheed e Sindona. Evidentemente, la ragione della corruzione non sta nella sorgente del finanziamento. Che sia pubblico o privato, la corruzione resta. Quindi, pensare di rendere virtuosi i politici rendendoli dipendenti dai soldi privati è illusorio.
Questa proposta non varrebbe a togliere la piaga della corruzione e inoltre ne produrrebbe una peggiore. Aggiungerebbe alla corruzione classica (quella dello scambio sottobanco e della ruberia) un’altra forma che è semmai ancora più devastante per la democrazia: la diseguaglianza politica. Infatti, lasciando che siano i privati a finanziare i partiti si darebbe alle differenze economiche la possibilità di tradursi direttamente in differenze di potere di influenza politica. Quindi alla corruzione della legalità si aggiungerebbe la corruzione della legittimità democratica. Nel caso della scuola come in quello dei partiti, la rinascita della fiducia dei cittadini nella politica passa per la rinascita del rispetto del valore del pubblico.