il manifesto, 21 giugno 2017 (c.m.c)
I parchi, ovvero le 27 aree protette nazionali e le 120 aree protette regionali – il polmone d’Italia – cambiano registro con una nuova legge quadro approvata ieri dalla Camera e quindi tornata in seconda lettura al Senato. Ma su questo cambiamento di pelle non c’è per niente accordo.
Le associazioni ambientaliste – non proprio tutte ma 12 sigle, le più grandi incluso Wwf, Lipu e Greenpeace – sono sul piede di guerra e hanno chiesto ai parlamentari di non votare la nuova legge per come è sortita dalla commissione. In più ieri a Palazzo Madama il testo emendato è stato approvato da una maggioranza azzoppata: 249 voti a favore, ma ben 115 contrari e 32 astenuti. A esprimere pollice verso non ci sono state solo le opposizioni (M5s, Sinistra Italiana e Lega) ma anche i bersaniani di Mdp, mentre Forza Italia si è astenuta. La legge, a giudizio anche dei suoi critici, non è interamente da buttare, anche perché l’esigenza di ammodernare la precedente normativa risalente al 1991 è largamente condivisa.
Ad esempio la nomina dei direttori dei parchi esclusivamente tra gli iscritti all’apposito albo professionale è considerata quasi universalmente corporativa e burocratica, da superare. I modelli gestionali vanno effettivamente resi in grado di implementare e ottimizzare le risorse trasferite dallo Stato, che sono considerevoli: circa 80 milioni di euro a ogni finanziaria, ma spesso non interamente utilizzate o non al meglio.
Ciò che però proprio non piace agli ambientalisti è il modello di governance e più in generale l’impianto «economicista» – una visione in cui il parco deve essere una risorsa economica più che un bene pubblico da tutelare – che si consoliderebbe nel disegno di legge con le modifiche parlamentari e governative apportate. Due i nodi: le royalties sulle attività economiche impattanti sull’ambiente – da una fonte di acque minerali fino alle trivelle della Val d’Agri – già presenti nell’area protetta e il «peso» dei rappresentanti delle categorie economiche locali nella gestione degli enti, che verrebbero così trasformati in una sorta di nuovo ente locale non elettivo.
La riforma enfatizza il ruolo delle royalties volendo, a parole, rinforzare l’autonomia gestionale del singolo parco – con anche la valorizzazione del proprio marchio, e relativa merchandising – ma nello stesso tempo si prevede che questi prelievi sul fatturato vengano pagati anche una tantum, istituendo di fatto al più un indennizzo che una penalità o una compensazione.
Quanto alla governance, finora le nomine di presidenti e direttori generali degli enti parco erano appannaggio del ministero dell’Ambiente, (i direttori scelti nell’albo).
Con la nuova legge l’albo non c’è più, il singolo presidente viene scelto sempre dal ministero ma «d’intesa» con la Regione competente, la quale deve sottoporre una terna di candidati. Mentre il direttore generale viene individuato da una commissione composta da un membro di scelta ministeriale e due nominati dal consiglio direttivo, che a sua volta è composto da 4 rappresentanti «nazionali» e 4 «locali». Ma all’interno del consiglio direttivo si introduce anche una quota di rappresentanza considerevole per il «mondo agricolo e dei pescatori».
Gli ambientalisti avevano invece proposto che la figura gestionale fondamentale del direttore generale venisse selezionata attraverso un concorso dirigenziale pubblico. Mentre così, senza nessun requisito richiesto, alla politica, probabilmente locale se non clientelare, vengono lasciate le mani del tutto libere.