Benvenuta la lettera con la quale il Presidente della Repubblica ha sollecitato l’interesse del Parlamento per le questioni riguardanti la fine della vita. Non sarà facile. Ma la ragione non sta nell’esistenza di un completo “vuoto normativo”. Al contrario, esiste già un insieme di principi e regole che definiscono il quadro giuridico da tener presente, sì che il vero rischio oggi può essere quello di usare una nuova legge per restringere diritti già riconosciuti.
”Morire con dignità”, “morire bene”, “diritti dei morenti”, sono alcune tra le tante espressioni con le quali da anni si descrive non solo la condizione delle persone alla fine della vita, ma più in generale il rapporto che ogni persona deve poter stabilire con il tempo estremo della sua esistenza. Infatti, se la morte appartiene alla natura, il morire appartiene alla sua vita, è divenuto sempre più governabile e dunque rientra nell’autonomia delle scelte di ciascuno. Proprio seguendo gli itinerari del diritto, è agevole accorgersi di questo radicale mutamento di prospettiva, con l’attribuzione a ciascuno del pieno governo del sé soprattutto per quanto riguarda il destino del proprio corpo, per il quale il principio è ormai quello del consenso libero e informato dell’interessato. La rivendicazione del diritto di morire diviene così parte del più complesso movimento di riappropriazione del corpo.
Tutto questo ha chiari e forti riferimenti nella Costituzione. Nell’articolo 32, dove la salute è definita diritto «fondamentale», si afferma che «nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge»: questo intervento, tuttavia, è ammissibile solo nei casi in cui vi sia una ragione sociale rilevante. Non a caso quell’articolo si conclude con parole molto nette: «La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». In nessun’altra costituzione si trova una norma così impegnativa. Si individua così un’area dell’”indecidibile”, preclusa a qualsiasi intervento legislativo e che viene identificata riferendosi al rispetto assoluto della dignità e della persona nella sua integralità.
Questa linea costituzionale ha trovato ripetute conferme in importanti sentenze dei giudici ordinari e nelle iniziative di un centinaio di comuni che hanno istituito registri dei testamenti biologici. Che non hanno un semplice valore simbolico, perché consentono di accertare l’effettiva volontà di una persona, superando una delle polemiche che accompagnarono la vicenda di Eluana Englaro. E da questo quadro di principi bisogna partire, lasciandosi alle spalle le polemiche che, nella scorsa legislatura, furono determinate dai tentativi di risolvere con norme proibizioniste una questione tanto impegnativa.
Nella discussione, che si snoda ormai nel corso dei decenni e non in Italia soltanto, compaiono due espressioni — accanimento terapeutico e rifiuto delle cure — che costituiscono punti fermi per quanto riguarda i doveri del medico e i diritti della persona. Ma questi non sono due mondi separati, anzi i veri problemi da risolvere sono proprio quelli che riguardano i medici e le loro responsabilità, anche se queste sono state escluse sia dalla magistratura che dall’ordine dei medici nei casi Welby e Englaro. Permane comunque una incertezza, che deve essere eliminata.
Su questi temi ha lavorato a lungo un gruppo di giuristi, medici e studiosi di bioetica, intelligentemente coordinati da professor Paolo Zatti, che ha elaborato una dettagliata proposta di legge, presentata al Senato da Luigi Manconi e che può costituire il riferimento per una discussione parlamentare finalmente liberata da ogni pretesa fondamentalista. Su questo testo varrà la pena di tornare quando sarà avviata la discussione parlamentare. Ma fin d’ora si può ricordare che esso muove dall’ormai incontestabile diritto all’intangibilità del corpo, ribadito anche dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, in cui si esprime al più alto grado il rispetto della dignità umana.
L’abbandono di ogni pretesa di invadere lo spazio della persona, che la Costituzione vuole tenere al riparo dagli interventi del legislatore, non risponde soltanto all’esigenza di affrontare in modo più adeguato, e liberato da ambiguità paternalistiche e pietistiche, la condizione reale di molte migliaia di sofferenti. Chiarisce come il diritto all’autodeterminazione, fondato com’è sulla libertà di governare liberamente la propria vita, mette in evidenza la necessità di tener conto dei diritti di chi intende proseguire la propria esistenza con tutta l’assistenza necessaria. Emerge così il diritto d’ogni cittadino di accedere alle cure palliative ed alle terapie del dolore. Solo tenendo insieme le due possibili scelte della persona, si può uscire dalla schizofrenia istituzionale e dalle ipocrisie di chi invoca l’intervento del legislatore in aree precluse dalla Costituzione, mentre ignora i doveri delle istituzioni pubbliche.
Questi sono i tragitti che portano verso un effettivo rispetto della vita, non quelli di chi si arrocca intorno alla difesa di valori “non negoziabili”, espressione di posizioni che possono avere anche una forte convinzione personale, ma che non possono cancellare i principi costituzionali. Forse i tempi si stanno facendo più propizi ad un confronto ispirato al rispetto pieno della dignità delle persone, grazie all’attenzione partecipe che per questa manifesta continuamente il Pontefice. Il Parlamento non può estraniarsi da questo contesto, continuando a subordinare i diritti delle persone alle convenienze di un partito o di una maggioranza di governo. La Chiesa può rendere la discussione più libera e consapevole. La Germania, oggi così detestata, può ricordarci il ruolo significato della sua Conferenza episcopale nel favorire una legge assai avanzata proprio sulle decisioni di fine vita.