Il Mulino, 3 novembre 2015
Ai primi freddi, invece, Franceschini dismette le vesti trionfali, reindossa il sacco del supplice (d’ordinanza per qualunque titolare dei Beni culturali), e si prostra: non ai piedi del suo presidente del Consiglio dei ministri, per chiedergli magari di riallineare la spesa pubblica per la cultura (e segnatamente per i musei) almeno alla media europea (siamo sotto la sua metà), ma invece ai piedi dell’impresa privata, implorandola di «adottare» i nostri più importanti musei, dagli Uffizi a Brera, dall’Accademia di Venezia a Capodimonte.
È utile riflettere sulla scelta delle parole. Franceschini parla di «adozione»: egli, cioè, invita le imprese – il mercato – a «riconoscere come proprio il figlio d’altri, mediante un atto giuridico» col quale «si creano rapporti di famiglia» fra cose «che non sono legate da un corrispondente vincolo naturale». È, questa, la piana definizione del Grande Dizionario della Lingua Italiana di Salvatore Battaglia. Ed è perfettamente, direi capillarmente, adeguata anche a dar conto dell’uso metaforico che di “adottare” e di “adozione” ha fatto Dario Franceschini. Il ministro prende formalmente atto del fatto che lo Stato – per mano del suo governo – ha definitivamente collocato sulla ruota degli esposti, o degli innocenti, i massimi musei italiani. Si potrebbe qui sottilizzare, discutere: forse non è un’adozione per abbandono, ma per morte dei genitori, giacché lo Stato nell’epoca della modernizzazione à la Blair (o, per dirla altrimenti, à la Reagan) – come ha scritto Luciano Gallino – «provvede da sé a eliminare il proprio intervento o quantomeno a ridurlo al minimo, in ogni settore della società: finanza, economia, previdenza sociale, scuola, istruzione superiore, uso del territorio». La fattispecie è dunque quella di un genitore che si suicida: segue, inevitabile, l’adozione.
Ma, come in un racconto dickensiano (ed è proprio a quella giungla sociale della Londra ottocentesca, che velocemente stiamo tornando), l’orfano non trova una famiglia amorosa e disinteressata. No, finisce tra le mani avide di chi vuol farlo lavorare: e sia pure a vendere fiammiferi per la strada. Lo sa bene il responsabile pro tempore dell’orfanotrofio del patrimonio culturale italiano, che si affretta a far balenare la prospettiva di un guadagno: i nuovi, orgogliosi genitori avranno l’esclusiva (si potrà diventare main partner degli Uffizi), e soprattutto una sedia nei consigli d’amministrazione – secondo l’aurea regola del «pago-comando». E dunque il messaggio renzian-dickensiano suona così: adottate i poveri musei italiani, sono pieni di braccia per il vostro brand. La Venere di Botticelli laverà i pavimenti, la Tempesta di Giorgione ospiterà picnic, la Dafne di Bernini diventerà più disponibile.
Tecnicamente, si tratta di un altro decisivo passo verso la trasformazione dei musei nazionali in fondazioni di partecipazione, sul modello – a torto celebratissimo, come ho provato a spiegare nel mio ultimo libro – del Museo Egizio di Torino. Dando a Comuni e Regioni la possibilità di nominare una parte del consiglio scientifico dei musei, si è avviato una sorta di federalismo demaniale del patrimonio: una devoluzione dal sapore leghista, palesemente incostituzionale (il patrimonio è «della nazione», art. 9 Cost.) e gravida di conseguenze nefaste. Ora segue a ruota la promessa di mettere le grandi imprese nella governance, cioè nei consigli di amministrazione.
Qualche giorno fa il notista politico più lucido e progressista del Paese – Maurizio Crozza – ha constatato, partendo da un articolo di chi scrive dedicato al noleggio del patrimonio pubblico, che «la cultura è diventata una mignotta che si offre a tutti, basta pagare».
Ma no, caro Crozza, ha capito male: adozione, non prostituzione. Andiamo avanti tranquillamente.
[I temi di questo intervento sono ripresi e ampliati nell’articolo di Tomaso Montanari in uscita sul numero 6/2016 della rivista: La notte dei musei e l’eclissi dell’articolo 9, pp. 1084-1092]