IL DIBATTITO sull’importanza politica dei moderati italiani prese il via a partire dalla primavera del 2004. Da allora è ininterrottamente proseguito. Siamo alla primavera del 2006, mancano esattamente due settimane alle elezioni e quel dibattito è ancora in corso. Non pare abbia dato molti frutti per una serie di ragioni: equivoci lessicali, interessi e furberie politiche, pigrizia intellettuale, luoghi comuni mediatici.
Ho partecipato anch’io a quel dibattito in varie occasioni e in particolare con tre articoli su "Repubblica" rispettivamente dell’8 luglio e del 27 ottobre 2004 e del 21 agosto 2005, cercando di chiarire gli equivoci lessicali, mettere in luce gli interessi economici e politici che usano il termine "moderati" per dritto e per rovescio e spronare gli intellettuali a scuotersi dalle loro pigrizie. Direi con scarso successo. Visto l’esito avevo quindi deciso di abbandonare il tema e arrendermi all’uso così confuso e spesso contraddittorio del termine «moderati». Confesso che a volte è piacevole arrendersi, specie quando non è in gioco l’onore, l’onorabilità.
Farsi cullare dal luogo comune può essere refrigerante, mettere il cervello in letargo è un modo come un altro di conoscere la beatitudine passiva. "Passivity rule", termine finanziario anglosassone molto apprezzato nei casi di Opa di incerta soluzione.
In questa nuova e arresa disposizione d’animo mi aspettavo che dopo la sortita del presidente del Consiglio al convegno confindustriale di Vicenza i moderati italiani manifestassero la loro presenza inviando un qualche messaggio con voce sia pur moderata ma chiara e netta. Gli elementi per attendersi questa reazione c’erano tutti: plateale violazione di regole in casa d’altri, interferenza altrettanto plateale del capo del potere esecutivo (cioè di una delle maggiori cariche dello Stato) nella vita di un’associazione privata, accuse pubbliche e facinorose contro la stampa, la magistratura, l’opposizione parlamentare, le Università, le persone della cui ospitalità stava fruendo in quel momento. Uno spettacolo purtroppo conosciuto ma mai ancora verificatosi in un luogo - la Confederazione degli industriali - che dovrebbe essere almeno in teoria il tempio, il sacrario del moderatismo politico. I moderati - pensavo - non avrebbero retto a quello scempio, a quell’estremismo politico oltreché verbale che non trova riscontro in nessuna democrazia liberale che conosciamo. Perciò aspettavo con fiducia.
Ebbene, non è accaduto assolutamente nulla. Non si è sentito un fiato.
Anzi: la presidenza confindustriale ha emesso un commento severo nei confronti della sortita berlusconiana, ma poi ha dovuto chiudersi a riccio sotto le proteste dei piccoli industriali del Nordest (e non solo del Nordest) imponendo il silenzio stampa a tutte le associazioni confederate; Della Valle, insultato dal presidente del Consiglio in quello stesso convegno vicentino e privato a forza di fischi del diritto a rispondere, si è dimesso dal direttivo confederale per potersi difendere «senza compromettere l’associazione».
I "moderati" che seguono Casini non hanno emesso verbo. Quanto al loro leader, ha detto che lui preferisce discutere di problemi concreti e non farsi coinvolgere in polemiche. E questa dichiarazione è stata considerata come il ruggito d’un leone nei confronti del leader massimo. Fini ha mantenuto un "aplomb" da fare invidia alle statue di cera del museo Grévin. In compenso i suoi colonnelli La Russa e Gasparri, berlusconiani onorari, si sono allineati ai colleghi di Forza Italia, i soliti, osannanti al colpo di teatro vicentino.
Questi sarebbero gli esponenti economici e politici dei moderati italiani: imprenditori come l’ex presidente di Confindustria, D’Amato, leader politici come Casini e Cesa, quadri dirigenti di Forza Italia. Quanto al partito di Alleanza nazionale, da tempo si sta riaccendendo nel cuore di molti di loro la fiamma missina, quindi non c’è da stupirsi.
Passi comunque per gli apparati: guardano alle elezioni e non hanno spazio per pensare ad altro. Ma i moderati? I moderati di base? La gente comune che si ritiene moderata? Quelli che coltivano il buonsenso, le buone creanze, la tolleranza, il giusto mezzo, il centrismo come luogo santo, il rispetto delle istituzioni? Dove sono finiti? Queste domande mi hanno scosso e mi hanno suggerito questa proposizione: i moderati in Italia non esistono. Non sono mai esistiti.
Esistono i conservatori. Gli indifferenti. Gli antipolitici. Gli anarco-individualisti.
Anche i trasformisti. Anche i doppiogiochisti. Ma i moderati nel senso di liberal-democratici, quelli no, non ci sono o sono quattro gatti. Quei pochi, semmai, stanno nel centrosinistra. Sono quelli che si riconoscono in Ugo La Malfa, nei fratelli Rosselli, in Turati, in Norberto Bobbio e Vittorio Foa, e nei quali non fa affatto schifo di essere in compagnia politica con i cattolici della Margherita, i diessini di Fassino e D’Alema. Di avere Prodi come leader e di guardare a Ciampi come il solo punto di riferimento istituzionale poiché i capi delle altre istituzioni hanno fatto fagotto.
Insomma il popolo riformista.
Ci potrebbe anche essere un riformismo moderato. In molti Paesi esiste e anzi vigoreggia. Ma da noi no perché da noi i moderati sono un’invenzione verbale. Da noi, parliamoci chiaro, non esiste la borghesia. Quella che fece le Cinque giornate milanesi del ‘48. Quella dell’illuminismo riformatore dei fratelli Verri e di Beccaria. Quella delle riforme agrarie nella Toscana e nell’Emilia. Dei setaioli e dei cotonieri che eleggevano a Biella Quintino Sella. Insomma la borghesia cavouriana che fondò lo Stato perché era portatrice di valori e di interessi.
Purtroppo quella borghesia non ha attecchito per lungo tempo. Durò poco più di un batter di ciglia. Fu seppellita dal fascismo. La Dc di De Gasperi la riportò in vita con una sorta di respirazione bocca a bocca, ma era una piccola borghesia del pubblico impiego, ceto medio del terziario, coltivatori diretti in fase di smobilitazione. Tenuti insieme dall’assistenzialismo pubblico e dalle braccia protettive di Santa Romana Chiesa.
Moderati? Cosiddetti. Conservatori? In parte. Apolitici? In maggioranza. Il gruppo dirigente Dc li trattenne al centro.
Riuscì addirittura a portarli all’alleanza con i socialisti. Poi, tendendo ancora di più l’elastico, all’"attenzione" amichevole verso il Pci. Ma nel momento del "liberi tutti" dopo Tangentopoli, rotte le righe che li trattenevano, gran parte di loro rifluirono a destra. Con Casini? Solo le briciole. Il grosso si riconobbe senza sforzo alcuno in Berlusconi. Nella tv delle ballerinette, del Grande Fratello e dell’Isola dei Famosi. Nell’Italia raccontata da Nanni Moretti con ironia e dal Bagaglino con convinto candore.
Ci sarà anche del buono in quest’altra metà della mela italiana; anzi certamente c’è. Ma non c’è la borghesia, che non si esaurisce in una figura patrimoniale ma condensa la sua essenza imprenditoriale nell’innovazione dei prodotti, nella libera competizione, nel contributo a costruire un ambiente che faccia sistema e includa energie, potenzialità e anche debolezze. Gli anglosassoni lo chiamano "togetherness", noi lo traduciamo "insiemità". E’ il tratto che ha fatto la forza delle nazioni e la loro ricchezza creando le classi dirigenti appropriate e le culture della libertà e della democrazia.
Una borghesia che accetti di farsi rappresentare da una squadra di demagoghi, populisti, arraffoni, infiocchettati da un pizzico di futurismo marinettiano come efficacemente l’ha definito Edmondo Berselli, non è una borghesia ma la sua grottesca caricatura.
Accettò d’esser presa in giro cinque anni fa dal "contratto con gli italiani", un elenco di promesse da marinaio delle quali ogni persona sensata avrebbe capito l’illusorietà. Mancavano dieci giorni alle elezioni ma nessuno chiese a Berlusconi di dire come avrebbe finanziato quelle promesse. Si vide dopo: le finanziò azzerando l’avanzo primario del bilancio che aveva ricevuto in eredità dal precedente governo, condonando entrate, non perseguendo le evasioni, lasciando briglie libere alle spese improduttive, tagliando i trasferimenti agli enti locali, inasprendo le imposte indirette, facendo lievitare ancora di più lo stock del debito pubblico. Con tutto ciò le clausole di quel "contratto" restarono largamente inadempiute.
Con questo po’ po’ di passato prossimo alle spalle si accusa oggi Prodi di non dire come finanzierà i suoi impegni programmatici, a cominciare dal taglio del cuneo fiscale. Lo si accusa di voler tassare i Bot e il risparmio. Ma Prodi ha detto chiaramente quale sarà la sua politica. Ha detto: «Manterrò ferma la pressione fiscale senza aumentarla di un centesimo. Sposterò una parte di quella pressione dalle spalle più deboli alle spalle più forti». Non poteva essere più onesto e più chiaro: «Dalle spalle più deboli alle spalle più forti».
La borghesia della Destra storica si autotassò ferocemente per costruire lo Stato. Era una borghesia soprattutto fondiaria e pagò il suo debito alla comunità e allo Stato da lei costruito e governato contribuendo con il 62 per cento alle entrare tributarie totali negli anni che vanno dal 1865 al 1876. Allora dico: giù il cappello di fronte a quella destra e a quella borghesia. Essa aveva in Cavour, Sella, Minghetti, Spaventa, i suoi punti di riferimento. I se-dicenti borghesi dei giorni nostri hanno come modelli Berlusconi e Tremonti.
Basterebbe questo a farci capire perché Mister Tod’s viene considerato un bolscevico da molti suoi colleghi. E perché nei cinque anni appena trascorsi la competitività delle imprese italiane abbia perso 25 punti nella classifica mondiale, il bilancio faccia acqua da tutte le parti, la crescita sia bloccata da tre anni e l’Europa ci tratti a pacche sulle spalle e a calci nel sedere.