Che i grandi flussi migratori costituiscano fenomeni inarrestabili, destinati a cambiare il volto dei paesi, dovrebbe esser noto in Italia, terra d’emigrazione e di antica sapienza storica. A poco valgono le barriere, gli strepiti, le paure di fronte a processi demografici e sociali incontenibili. Essi avanzano a dispetto di tutto, procedono anche molecolarmente e cambiano la storia del mondo, che lo vogliano o no i contemporanei.
Perciò una istituzione come i Centri d’Identificazione ed Espulsione – nati dalla fantasia miserabile del centro-destra — ha sintetizzato tutta la miopia e l’inettitudine delle nostre classi dirigenti di fronte a un fenomeno che non sono in grado di fronteggiare, ma neppure di comprendere. Miopia e inettitudine paradossali, per un paese in declino demografico, malamente invecchiato, che respinge l’energia vitale di una gioventù affamata di lavoro, di stabilità e di sicurezza di vita. Eppure, non mancano gli esempi recenti che potrebbero insegnare qualcosa ai governanti italiani e anche a quelli europei.
I quali, come s’è visto di recente, di fronte alle ecatombi nel Mediterraneo, condensano la loro alta progettualità nell’idea di affondare i barconi dei disperati. Qui gli algoritmi degli strateghi della finanza precipitano nel ridicolo. Negli anni ’90 gli USA hanno conosciuto una ondata di immigrazione fra le più vaste e intense della loro storia.
Quell’immissione demografica, proveniente dal Sud e Centro America, ha costituito, fino all’ 11 settembre, una delle leve della straordinaria espansione economica del decennio. Nuova popolazione, dunque nuovi bisogni di case, servizi, cibo e beni, e tanta disponibilità di forza lavoro a basso costo. E ancora oggi è l’immigrazione che tiene in piedi la base alimentare di quel paese. In California, la “campagna” degli USA, quasi nessuna raccolta di frutta e ortaggi sarebbe possibile senza il lavoro dei latinos, in grado di reggere un durissimo lavoro a temperature insopportabili per la popolazione americana. Non è un modello da imitare, ma è la realtà. Ma anche a casa nostra, lo ricordano giustamente Tonino Perna e Alfonso Gianni nel loro articolo, gli immigrati svolgono già una funzione economica decisiva nelle nostre campagne, ancorché in condizioni spesso inaccettabili. Si fa poco sapere agli italiani, ad es., che gran parte del settore zootecnico del Nord Italia è stato tenuto in vita dal lavoro oscuro e silenzioso degli immigrati dall’India.
Ma quanto propongono Perna e Gianni può diventare in effetti un grande progetto. Costituisce una strada non solo utile e percorribile, ma obbligata per un insieme di ragioni. Intanto perché riportare alla nostra terra migliaia di giovani africani o di altri altri stati che l’hanno dovuta abbandonare nel loro paese, per miseria o per guerra, significa dare una prospettiva a una parte importante della popolazione migrante. Al tempo stesso, l’ingresso di tanti giovani che hanno esperienza e vocazione per il lavoro agricolo potrebbe rimettere in vita territori vastissimi non solo del nostro Sud, ma anche delle colline preappeniche di tutta la Penisola, oggi in abbandono o in via di spopolamento. Infine, porre il fenomeno dell’immigrazione al centro di un vasto progetto di inserimento sociale, farne una leva di progresso economico e ambientale di tutto il paese, rafforzerebbe enormemente il discorso di pura difesa umanitaria degli immigrati che oggi fa la sinistra e le forze democratiche. Qui sta un nodo di elaborazione politica di assoluto rilievo, che può disinnescare la miscela populistica e xenofoba della destra italiana.
Com’ è ovvio, il processo di inserimento dei nuovi arrivati nelle nostre campagne non può essere affidato alla spontaneità. Questi miracoli del cosi detto libero mercato avvengono solo nella testa degli economisti neoliberisti. Occorre che la mano pubblica faccia la sua parte, sia a livello centrale, con apposite leggi, sia in periferia, tramite le amministrazioni comunali. La base di partenza è la disponibilità della terra. Esistono immense estensioni di territori abbandonati, ricordano Perna e Gianni. Ma molti di questi, specie se collocati non lontano dal mare, sono in attesa di edificazione, perché la speranza di arricchirsi con la rendita non muore mai. E dunque occorre stabilire per legge l’impossibilità netta e invalicabile di cambiare destinazione d’uso alle terre agricole. Tanto più che si tratta quasi sempre di terre collinari, che assolvono un compito di equilibrio ambientale e idrogeologico decisivo per la sicurezza di territori e abitati. Ma i comuni dovrebbero fare la loro parte, impegnandosi a inventariare le loro terre e quelle demaniali disponibili.
In queste aree, che rappresentano certamente l’osso della nostra agricoltura, è possibile sviluppare economie niente affatto marginali. Nelle migliori terre di collina potrebbe fiorire e in parte rifiorire la frutticoltura di qualità, in grado di valorizzare la biodiversità agricola ineguagliabile di cui ancora disponiamo. Oggi esiste solo a livello amatoriale, si dovrebbe innalzare a una scala accettabile di produzione e immettere nel mercato. Ma accanto all’agricoltura si potrebbe sviluppare un ambito gravemente sottovalutato: quello della silvicultura.
E’ poco noto che nel Mezzogiorno l’intervento della Cassa, che ha riforestato larga parte delle nostre montagne e colline - limitando le alluvioni che periodicamente funestavano paesi a abitati - ha avuto un indirizzo molto specifico: si è limitato alla protezione del suolo dai fenomeni di erosione. Oggi noi abbiamo km quadrati di boscaglia e di macchia e siamo costretti a importare dall’Europa il legname da opera: noci, ciliegi, castagni, oltre a quello dei paesi tropicali. Si apre dunque uno scenario di possibilità di nuova forestazione con alberi di pregio di straordinaria ampiezza, in grado di far rivivere tanti paesi e terre oggi abbandonati. Tanto più che alla selvicoltura si può accompagnare l’allevamento, soprattutto di animali da cortile, e l’uso delle acque interne, capaci di produrre reddito immediato.
Naturalmente, a valle, si presenta il problema della commercializzazione dei prodotti. E’ questo l’altro grande nodo su cui intervenire. Lasciare i produttori in balia della grande distribuzione significa strozzare i loro redditi e condannarli all’abbandono dell’impresa. E qui occorre imparare dall’esperienza della riforma agraria del 1950. Le imprese che allora ebbero successo e riuscirono a sopravvivere, furono quelle che ebbero una quota sufficiente di terra (almeno 5 Ha) e la casa. Ma che al tempo stesso godettero dell’assistenza tecnica degli Enti di riforma e la possibilità di accesso al mercato. La creazione di cooperative, come quelle previste dal Decreto Gullo per l’assegnazione delle terre incolte, del 1944, dovrebbe costituire una piattaforma importante dell’intero progetto, in grado di mettere insieme efficienza economica e relazioni solidali. Non è solo in gioco la possibilità di valorizzazione economica dei territori. Si gioca qui anche la scommessa di ricostruire, sulle nostre antiche terre, nuove comunità di vita