Proprio la questione dell’impero spinge Smith ad affrontare le implicazioni etniche e nazionali della rivoluzione e della guerra civile. Dalla rassegna di quegli eventi si ottiene un quadro di riferimenti assai utile anche per indagare le questioni nazionali nel mondo post-sovietico dei nostri giorni, dall’annoso problema del nazionalismo grande russo, dell’antisemitismo, ma anche della russofobia, a quello dei nazionalismi degli altri popoli dell’impero (dal Baltico, al Caucaso, all’Ucraina, all’Asia Centrale) e oltre. Sono tutti aspetti dei conflitti interni alla rivoluzione che Smith giustamente confronta e contrappone agli intenti dichiarati del nascente potere proletario: affermare una prospettiva internazionalista e universale, che avrebbe dovuto realizzarsi nella vittoria del socialismo in tutto il pianeta.
Lo storico inglese ripercorre la storia dei rapporti e delle contrapposizioni tra i bolscevichi e gli altri movimenti politici di orientamento socialista, caratterizza i dissidi anche all’interno dello stesso partito comunista, traccia tendenze e conflitti che risultano significativi anche per comprendere la storia più recente di quelle nazioni e di quei popoli che vennero inglobati nelle varie repubbliche socialiste dell’Urss. Sempre con un occhio attento alla storia più recente, Smith affronta il tema delle persecuzioni contro la Chiesa e la politica antireligiosa sviluppata fin dal successo del colpo di stato dell’Ottobre.
Centrale, poi, l’analisi dei tratti sociali, culturali, politici del variegato mondo contadino russo e del suo rapporto con il nuovo potere dei Soviet. Allo stesso tempo, Smith sviluppa anche un fruttuoso confronto con la storia della cultura russa e sovietica, tra tradizione, innovazione, pragmatismo e aspettative catartiche, negli anni che precedettero la piena affermazione dello stalinismo. E affronta in modo assai vivace il tema della violenza rivoluzionaria, rifiutando molti degli stereotipi interpretativi fin qui accettati e mettendo a confronto il periodo dell’autocrazia con quello del nascente stato sovietico, quello della guerra civile e quello del terrore rosso della Ceka.
Approda così a constatare la «ubiquità della violenza» nella rivoluzione: nel mettere ovviamente in evidenza la tendenza del potere sovietico a «plasmare il corpo sociale» con pratiche di schedatura, carcerazione, deportazione e così via, non minimizza il carattere violento e repressivo dell’ancien régime enumerandone i numerosi antecedenti e stabilendo interessanti analogie. Di grande rilievo è anche l’analisi offerta dallo storico inglese del rapporto tra azione rivoluzionaria, gestione del potere e ideologia, e, allo stesso tempo, del passaggio dalla rivoluzione di popolo a quella «dall’alto» attuata da Stalin fino al recupero di molti tratti dell’autocrazia.
In questa prospettiva, Smith tiene conto, pur tendendo a superarle, delle varie letture precedentemente offerte della rivoluzione russa, da quella di Martin Malia, che parla di «ideocrazia», attribuendo grande importanza all’ideologia anche nelle scelte pratiche e contingenti della gestione del potere, a quella di Richard Pipes che vede la persistente influenza dello zarismo nel definirsi del nuovo stato sovietico e della stessa concezione della dittatura del proletariato che si realizza poi nell’incontrastata autorità di Stalin.
In questi tempi di dilagante russofobia e riabilitazione di movimenti nazionalistici a suo tempo alleati del nazismo quella di Smith è una presa di posizione decisa e niente affatto scontata.