Il manifesto, 3 luglio 2015 (m.p.r.)
Atene. Osservato dalla piazza di Labrini, periferia nord di Atene, il referendum che spaventa l’Europa assume tutt’altra prospettiva rispetto a quella restituita dalle dichiarazioni di Angela Merkel o di Jean Claude Juncker. Si è appena concluso un dibattito pubblico tra sostenitori del no e la gente del quartiere, uno dei tanti che si susseguono ogni sera nelle piazze della capitale ellenica, e si tratta di capire, per quanto è possibile, quale sia l’orientamento dei diretti interessati: sottomettersi alle misure europee che la maggioranza dei greci ha rigettato appena cinque mesi fa votando Syriza e gli altri partiti anti-austerità oppure far saltare il banco accettando di «navigare in acque sconosciute», per dirla con il presidente francese Francois Hollande, il leader politico europeo che pare aver deluso più ancora di Angela Merkel o Jean Claude Juncker?
Tra locali e taverne affollati come al solito, frotte di bambini all’inseguimento di un pallone e altoparlanti che diffondono canzoni della resistenza greca e italiana, in un clima a metà tra una vecchia festa dell’Unità e una sagra paesana si ascolta di tutto: dal «colpo di stato europeo» per abbattere Tsipras al «volete rovinarci» indirizzato agli esponenti di Syriza, segno di una polarizzazione, soprattutto in provincia, «che non si vedeva dai tempi della guerra civile», sostiene chi ha il polso della campagna referendaria. In un angolo, a un banchetto del Kke si distribuiscono volantini che invitano a mettere sulla scheda due no: al piano dei creditori e al governo Syriza-Anel, con il risultato di annullare la scheda e, di fatto, nuocere alle ragioni del no, a differenza di Antarsya, altro partitino della sinistra radicale fuori dalla maggioranza ma schieratosi a sostegno del referendum voluto dal governo. Li rivedrò entrambi, Antarsya e il Kke, il giorno dopo, cioè ieri sera, a manifestare separati per le vie del centro cittadino, i primi per il no, i secondi a dire «né-né»: né con lo Stato né con la troika.
Divisi a metà
Una rappresentazione plastica della divisione nella società greca è arrivata dalle due manifestazioni di qualche giorno fa: piena quella del no, altrettanto e forse persino di più quella del sì. La propaganda mediatica non aiuta a capirne di più. Non è un mistero che i boss della comunicazione in Grecia abbiano mal digerito il governo della sinistra e in questi giorni si sono trasformati nel megafono del fronte del sì, altrimenti assente dalle manifestazioni pubbliche, a differenza dei loro antagonisti. Nella fretta di rispondere colpo su colpo ai discorsi di Tsipras e al quartiere per quartiere degli attivisti di Syriza, sono però scivolati sulla più classica delle bucce di banana: un sondaggio prontamente smentito dagli stessi sondaggisti ai quali era stato attribuito. Per rispondere a quello pubblicato dal quotidiano indipendente (edito da una cooperativa di giornalisti) Efimerida due giorni fa, che dava il no al 54 per cento, contro il 33 dei sì e un 13 per cento di indecisi, ieri è finito sul giornale di orientamento conservatore Kathimerini un contro-sondaggio commissionato dai banchieri di Bnp Paribas all’istituto Gpo, per il quale il 47,1 per cento dei greci voterebbe invece a favore del piano presentato dai creditori, contro il 43,2 per cento che lo rifiuterebbe (con gli indecisi stimati tra l’8 e il 17 per cento). Ma a smentire tutto è stata la stessa Gpo (che in passato aveva fornito sondaggi attendibili sull’ascesa di Syriza), che ha negato di aver partecipato alla rilevazione minacciando di portare il quotidiano in tribunale e ha ribattuto che i sondaggi devono essere fatti in maniera «responsabile», in attesa della «critica decisione del popolo greco».
I due fronti
Cercando di costruire una geografia degli schieramenti, finisco a una conferenza stampa di avvocati, convocata per contestare la decisione del Consiglio dell’ordine di dare indicazione ai propri iscritti di votare sì al referendum. Non sono i soli: ha fatto altrettanto la Confederazione generale dei lavoratori greci (Gsee), il più grande sindacato ellenico, e non è una buona notizia per Syriza anche se la federazione dei metalmeccanici, al contrario, pur non esprimendosi apertamente a favore del no, si è schierata con il governo. Ma accade che le decisioni dei vertici siano contestate dagli iscritti, come sta avvenendo tra i legali, letteralmente imbufaliti perché, spiegano, il loro Ordine non dovrebbe immischiarsi in questioni del genere, come spiega Sarantos Theodoropoulos, appena tornato da Berlino dov’è andato a incontrare i deputati della Linke e della sinistra Spd per spiegare loro dal punto di vista legale la questione dei risarcimenti dovuti dalla Germania alla Grecia a causa dell’occupazione nazista. Mai come in questo caso, sostengono diversi analisti, il voto potrebbe non rispettare le indicazioni delle organizzazioni di riferimento.
Gli scenari del dopo-voto
Come andrà a finire domenica nessuno è in grado di affermarlo con sicurezza. «Quello che ha messo in difficoltà il governo è stata la decisione di chiudere le banche per una settimana», spiegano nella redazione del settimanale indipendente Epohi, vicino alle posizioni della sinistra radicale al governo. Una decisione estrema che ha consentito di evitare la bancarotta dovuta al panico e che potrebbe incidere negativamente sull’esito del voto, anche se ottocento istituti sono rimasti aperti per pagare le pensioni e ieri il governo ha annunciato la riapertura di tutti per martedì. Tutto sommato, i greci hanno affrontato con grande calma lo stop al credito (e pure ai tribunali), grazie anche al fatto che esso non è stato totale e il governo ha garantito pure la gratuità dei trasporti. Ma tutto ciò non basta a evitare che, per l’ennesima volta in pochi anni, un voto in Grecia si giochi sulla paura, quella stessa che solo alla fine di gennaio Alexis Tsipras era riuscito a sconfiggere contrapponendole la «speranza».
Anche gli scenari del dopo-voto rimangono incerti: ieri il ministro delle Finanze Yannis Varoufakis ha detto ieri di essere pronto a dimettersi se dovesse vincere il sì e lo stesso Tsipras ha già fatto sapere di non essere «un uomo per tutte le stagioni». Insomma, non ci sarà un governo Syriza che firmerà l’accordo con i creditori. Ma cosa accadrebbe se dovesse cadere il governo, come vogliono sull’asse Bruxelles-Berlino? Quale regime change sarebbe possibile? Bruciato dai fallimenti del passato l’ex premier di Nea Democrazia Antonis Samaras, ridotti ai minimi termini i socialisti del Pasok, il candidato dell’Europa pare essere l’ex giornalista televisivo Stavros Theodorakis, fondatore e leader della formazione centrista To Potami, che potrebbe finire alla testa di un governo di unità nazionale, l’unico in grado di far passare un programma ancora una volta lacrime e sangue. Ma con quali voti un siffatto esecutivo si reggerebbe se l’azionista di maggioranza Syriza non ci starebbe e men che meno le altre minoranze da sinistra a destra (anche se tre deputati dei Greci Indipendenti, al governo, ieri si sono schierati per il sì)? In che modo si riuscirebbe a mettere in piedi un governo che firmi l’accordo con i creditori entro il 20 luglio, in tempo utile per ricevere i soldi del programma e ripagarela rata di debiti con la Bce? Una sconfitta del no, paradossalmente, rischierebbe di rendere ancora più confusa la situazione e di aprire un periodo di forte instabilità politica nel paese.
La strategia della dignità
Syriza dal suo canto mira a smontare la strategia del «ci ridurranno in povertà» ricordando cosa hanno prodotto le politiche di austerità esasperate in Grecia: un tasso di disoccupazione al 27 per cento, un fortissimo aumento di depressioni e suicidi (uno studio pubblicato dal British medical journal ne ha censiti 10 mila dal 2008, la maggior parte avvenuti dopo l’approvazione del contestato Memorandum del 2011), precarizzazione del lavoro e smantellamento di diritti. Quella catastrofe sociale che ha portato in pochi anni la sinistra radicale al governo del paese (e alimentato pure l’ascesa dell’estrema destra di Alba Dorata).
Se dovesse farcela per la seconda volta in un anno, Tsipras ne uscirebbe da trionfatore nonostante i rischi di default incontrollato, i rating al ribasso di Moody’s e Standard&Poor’s e le minacce europee di abbandonare la Grecia al suo destino che rischierebbero di lasciare il tempo che trovano di fronte a un quadro radicalmente cambiato. Il leader greco sostiene, forse a ragione, che una vittoria del no gli darebbe più forza negoziale in Europa e alla paura contrappone un altro sostantivo: dignità. Il messaggio, un pizzico patriottico, è: non lasciamoci più calpestare.