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Giuseppe D?Avanzo
I giudici ciechi di Bolzaneto
16 Luglio 2008
Italiani brava gente
Ancora sacrosanta indignazione per i criminali in uniforme, e la viltà di quelle toghe che non hanno voluto vedere la posta in gioco. La Repubblica, 16 luglio 2008

Non era la "punizione" degli imputati il cuore del processo per le violenze di Bolzaneto. Quel processo doveva dimostrare (e ha dimostrato in modo inequivocabile, a nostro avviso) che può nascere senza alcuna avvisaglia, anche in un territorio governato dalla democrazia, un luogo al di fuori delle regole del diritto penale e del diritto carcerario, un «campo» dove esseri umani – provvisoriamente custoditi, indipendentemente dalle loro condotte penali – possono essere spogliati della loro dignità; privati, per alcune ore o per alcuni giorni, dei loro diritti e delle loro prerogative.

Nelle celle di Bolzaneto, tutti sono stati picchiati. Questo ha documentato il dibattimento. Manganellate ai fianchi. Schiaffi alla testa. Tutti sono stati insultati: alle donne è stato gridato «entro stasera vi scoperemo tutte». Agli uomini, «sei un gay o un comunista?». Altri sono stati costretti a latrare come cani o ragliare come asini. C’è chi è stato picchiato con stracci bagnati. Chi sui genitali con un salame: G. ne ha ricavato un «trauma testicolare». C’è chi è stato accecato dallo spruzzo del gas urticante-asfissiante. Chi ha patito lo spappolamento della milza. A. D. arriva nello stanzone della caserma con una frattura al piede. Lo picchiano con manganello. Gli fratturano le costole. Sviene. Quando ritorna in sé e si lamenta, lo minacciano «di rompergli anche l’altro piede». C’è chi ha ricordato in udienza un ragazzo poliomielitico che implora gli aguzzini di «non picchiarlo sulla gamba buona». I. M. T. ha raccontato che gli è stato messo in testa un berrettino con una falce e un pene al posto del martello.

Ogni volta che provava a toglierselo, lo picchiavano. B. B. era in piedi. Lo denudano. Gli ordinano di fare dieci flessioni e intanto, mentre lo picchiano ancora, un carabiniere gli grida: «Ti piace il manganello, vuoi provarne uno?». Percuotono S. D. «con strizzate ai testicoli e colpi ai piedi». A. F. viene schiacciata contro un muro. Le gridano: «Troia, devi fare pompini a tutti». S. P. viene condotto in un’altra stanza, deserta. Lo costringono a denudarsi. Lo mettono in posizione fetale e, da questa posizione, lo obbligano a fare una trentina di salti mentre due agenti della polizia penitenziaria lo schiaffeggiano. J. H. viene picchiato e insultato con sgambetti e sputi nel corridoio. Alla perquisizione, è costretto a spogliarsi nudo e «a sollevare il pene mostrandolo agli agenti seduti alla scrivania». Queste sono le storie ascoltate, e non contraddette, nelle 180 udienze del processo. È legittimo che il tribunale abbia voluto attribuire a ciascuno di questi abusi una personale, e non collettiva, responsabilità penale. Meno comprensibile che non abbia voluto riconoscere – tranne che in un caso – l’inumanità degli abusi e delle violenze. Era questo il cuore del processo. Alla sentenza di Genova si chiedeva soltanto di dire questo: anche da noi è possibile che l’ordinamento giuridico si dissolva e crei un vuoto in cui ai custodi non appare più un delitto commettere – contro i custoditi – atti crudeli, disumani, vessatori. È possibile perché è accaduto, a Genova, nella caserma Nino Bixio del reparto mobile della polizia di Stato tra venerdì 20 e domenica 22 luglio 2001, a 55 "fermati" e 252 arrestati.

È questo "stato delle cose" che il blando esito del giudizio non riconosce. È questa tragica probabilità che il tribunale rifiuta di vedere, ammettere, indicarci. Nessuno si attendeva pene "esemplari", come si dice. Il reato di tortura in Italia non c’è, non esiste. Il parlamento non ha trovato mai il tempo – in venti anni – di adeguare il nostro codice al diritto internazionale dei diritti umani, alla Convenzione dell’Onu contro la tortura, ratificata dal nostro Paese nel 1988. Agli imputati erano contestati soltanto reati minori: l’abuso di ufficio, l’abuso di autorità contro arrestati o detenuti, la violenza privata. Pene dai sei mesi ai tre anni che ricadono nell’indulto (nessuna detenzione, quindi). Si sapeva che, in capo a sei mesi (gennaio 2009), ogni colpa sarebbe stata cancellata dalla prescrizione.

Il processo doveva soltanto evitare che le violenze di Bolzaneto scivolassero via senza lasciare alcun segno visibile nel discorso pubblico.

Il vuoto legislativo che non prevede il reato di tortura poteva infatti consentire a tutti – governo, parlamento, burocrazie della sicurezza, senso comune – di archiviare il caso come un imponderabile «episodio» (lo ripetono colpevolmente oggi gli uomini della maggioranza). Un giudizio coerente con i fatti poteva al contrario ricordare che la tortura non è cosa «degli altri». Il processo doveva evitare che quel "buco" permettesse di trascurare che la tortura ci può appartenere. Che – per tre giorni – ci è già appartenuta.

I pubblici ministeri sono stati consapevoli dell’autentica posta del processo fin dal primo momento. «Bolzaneto è un "segnale di attenzione"», hanno detto. È «un accadimento che insegna come momenti di buio si possono verificare anche negli ordinamenti democratici, con la compromissione dei diritti fondamentali dell’uomo per una perdurante e sistematica violenza fisica e verbale da parte di chi esercita il potere».

I magistrati hanno chiesto, con una sentenza di condanna, soprattutto l’ascolto di chi ha il dovere di custodire gli equilibri della nostra democrazia, l’attenzione di chi ostinatamente rifiuta di ammettere che, creato un vuoto di regole e una condicio inhumana, «tutto è possibile». Bolzaneto, hanno sostenuto, insegna che «bisogna utilizzare tutti gli strumenti che l’ordinamento democratico consente perché fatti di così grave portata non si verifichino e comunque non abbiano più a ripetersi». È questa responsabile invocazione che una cattiva sentenza ha bocciato. Il pubblico ministero, con misura e rispetto, diceva alla politica, al parlamento, alle più alte cariche dello Stato, alla cittadinanza consapevole: attenzione, gli strumenti offerti alla giustizia per punire questi comportamenti non sono adeguati. Non esiste una norma che custodisca espressamente come titolo autonomo di reato «gli atti di tortura», «i comportamenti crudeli, disumani, degradanti». E comunque, il pericolo non può essere affrontato dalla sola macchina giudiziaria: quando si muove, è già troppo tardi. La violenza già c’è stata. I diritti fondamentali sono stati già schiacciati. La democrazia ha già perso la partita. I segnali di un incrudelimento delle pratiche nelle caserme, nelle questure, nelle carceri, nei campi di immigrati – dove i corpi vengono rinchiusi – dovrebbero essere percepiti, decifrati e risolti prima che si apra una ferita che non sarà una sentenza di condanna a rimarginare, anche se quella sentenza fosse effettiva (come non era per gli imputati di Bolzaneto). L’invito del pubblico ministero e una sentenza più coerente avrebbero potuto e dovuto indurre tutti – e soprattutto le istituzioni – a guardarsi da ogni minima tentazione d’indulgenza; da ogni volontà di creare luoghi d’eccezione che lasciano cadere l’ordinamento giuridico normale; da ogni relativizzazione dell’orrore documentato dal processo. Al contrario, la decisione del tribunale ridà fiato finanche a Roberto Castelli, ministro di giustizia dell’epoca: in visita nel cuore della notte alla caserma, bevve la storiella che i detenuti erano nella «posizione del cigno» contro un muro (gambe divaricate, braccia alzate) per evitare che gli uomini molestassero le donne.

«Bolzaneto» è una sentenza pessima, quali saranno le motivazioni che la sostengono. È soprattutto una sentenza imprudente e, forse, pericolosa. Nel 2001 scoprimmo, con stupore e sorpresa, come in nome della «sicurezza», dell’«ordine pubblico», del «pericolo concreto e imminente», della «sicurezza dello Stato» si potesse configurare un’inattesa zona d’indistinzione tra violenza e diritto, con gli indiscriminati pestaggi dei manifestanti nelle vie di Genova, il massacro alla scuola Diaz, le torture della Bixio. Oggi, 2008, quelle formule hanno inaugurato un «diritto di polizia» che prevede – anche per i bambini – lo screening etnico, la nascita di «campi di identificazione» che spogliano di ogni statuto politico i suoi abitanti. Quel che si è intuito potesse incubare a Bolzaneto, è diventato oggi la politica per la sicurezza nazionale. La decisione di Genova ci dice che la giustizia si dichiara impotente a fare i conti con quel paradigma del moderno che è il «campo». Avverte che in questi luoghi «fuori della legge», dove le regole sono sospese come l’umanità, ci si potrà affidare soltanto alla civiltà e al senso civico delle polizie e non al diritto. Non è una buona cosa. Non è una bella pagina per la giustizia italiana.

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