Del rapporto, intitolato Poorer than their parents? A new perspective of income inequality (Più poveri dei genitori? Una nuova prospettiva sulla disuguaglianza dei redditi), si sta molto parlando sui giornali, e sorprende come – per la gravità dei suoi contenuti – l’agenda politica non dia segno di risentirne in modo drastico.
Secondo lo studio della multinazionale, che ha preso in esame le 25 economie più ricche del pianeta, oggi il 97 per cento delle famiglie italiane sta peggio di come stava nel 2005. Alta la percentuale degli Stati Uniti (81 per cento), preoccupante quella di Regno Unito e Paesi Bassi (70 per cento in entrambi i casi), poco incoraggiante quella della Francia (63 per cento). Isola felice la Svezia, dove welfare e politiche keynesiane hanno fatto sì che solo il 20 della popolazione oggi stia peggio di dieci anni fa.
Fallimento certificato
A fare le spese in una simile situazione sono soprattutto i giovani, condannati a essere più poveri dei loro genitori. A parte una breve battuta d’arresto durante gli anni settanta, fa notare lo studio McKinsey, non era mai successo a partire dal dopoguerra che le nuove generazioni si affacciassero sul mondo del lavoro con meno prospettive rispetto alle precedenti.
Se si tiene conto che in Nordamerica e in Europa occidentale i profitti delle imprese negli ultimi tre decenni “sono stati eccezionali” (sempre lo studio McKinsey nella sua versione più estesa), e che il 2015 è anche il primo anno in cui il famoso 1 per cento della popolazione più ricca è arrivato a possedere oltre la metà della ricchezza mondiale (qui è il rapporto Oxfam a dirci a quale livello è giunta la disuguaglianza, con 62 super miliardari la cui ricchezza è pari a quella dei 3,6 miliardi di esseri umani più poveri), il fallimento delle politiche economiche adottate nella maggior parte dei paesi occidentali a partire dagli anni della reaganomics non è più un’opinione, ma un fatto, certificato spietatamente dai numeri.
I ventenni di oggi lo sanno subito che per loro sarà dura
Secondo i sostenitori del neoliberismo l’aumento della ricchezza complessiva all’interno di un sistema economico dovrebbe beneficiare la maggior parte degli individui che ne fanno parte, sia pure al costo di un allargamento della forbice tra più e meno fortunati. Nelle economie più evolute non è andata così. È accaduto l’opposto. Le cose sono andate benissimo per pochi e decisamente peggio per la maggior parte di noi. Questo vale sia per i paesi che ancora stentano a uscire dalla recessione (l’Italia) sia per le economie ben più dinamiche della nostra, come quella degli Stati Uniti, dove il pil ha ripreso a crescere già da qualche anno ma l’ascensore sociale resta fermo e la redistribuzione della ricchezza (nonché la moltiplicazione delle opportunità) è abbastanza critica da generare fenomeni come Donald Trump.
Tornando in Italia, se volete misurare con più precisione lo svantaggio dei nati tra il 1970 e il 1974 rispetto ai nati tra il 1965 e il 1969, e dei nati tra il 1975 e il 1979 rispetto a tutti gli altri, allora date un’occhiata a questo studio, dal quale si evince tra l’altro come “siano soprattutto i laureati ad aver subìto una forte riduzione dei livelli retributivi rispetto alle generazioni precedenti”.
A rendere più infame la situazione italiana c’è l’ultimo Rapporto Unicef su povertà e disuguaglianza tra i bambini, secondo il quale siamo trentaduesimi su trentacinque paesi di Unione europea/Ocse presi in esame. In questo caso i parametri usati sono il divario nel reddito, nei risultati scolastici, nelle condizioni di salute. Compromettiamo in modo quasi irreversibile il futuro dei giovani, e come se non bastasse rendiamo molto complicato il presente dei bambini.
Fino qui, l’evidenza dei dati. Ciò che desta altrettanta preoccupazione è assai meno misurabile. Si tratta delle ripercussioni sociali, civili, esistenziali, spirituali che un simile tradimento del futuro potrà avere e in parte sta già avendo e ha già avuto su di noi, sul modo in cui ci consideriamo parte di una comunità e sul rapporto che intratteniamo con noi stessi giorno dopo giorno, dai quali discendono in buona misura autostima, equilibrio, serenità e riconoscimento di senso (o di non senso) rispetto al fatto di appartenere a un determinato momento storico, in un altrettanto ben determinato contesto. Come Amleto, i più fantasiosi possono credersi re dello spazio infinito perfino chiusi in un guscio di noce. Il problema è che fuori c’è Elsinore, ed è impossibile non farci i conti.
I quarantenni. I trentenni. I ventenni. In Italia, nessuno che appartenga a queste fasce anagrafiche aveva bisogno del rapporto McKinsey per sapere come stavano le cose. I ventenni più dei trentenni. I trentenni più dei quarantenni. Chi sperimenta un certo tipo di male sulla sua pelle si trova nell’ingrata condizione di sapere prima degli altri che cosa sta accadendo e al tempo stesso rischia di non essere creduto, almeno fino a quando il proprio travaglio personale non avrà il tempo per diventare una statistica.
Odioso scetticismo
Ho 43 anni, faccio parte della prima generazione che in Italia si è trovata a muoversi in un contesto meno favorevole rispetto a quello che ha accolto chi c’era in precedenza. Il cambio di paradigma ha avuto su quelli come me un effetto di spiazzamento che i ventenni di oggi – più consapevoli e più svantaggiati rispetto a quanto ero io alla loro età – non sperimentano. Lo sanno subito, che per loro sarà dura.
Noi eravamo quelli a cui avevano detto “andate, laureatevi, e il mondo sarà vostro”. Laureati quanto era bastato ai nostri genitori per mettere su famiglia, freschi di master quanto era stato sufficiente ai nostri fratelli maggiori per diventare benestanti, ci siamo ben presto resi conto quanto la porta d’accesso al futuro si fosse ristretta. Il problema è che un ventenne non ha quasi mai una voce in grado di farsi sentire pubblicamente. Così, all’epoca, il nostro grido d’allarme suscitò non di rado un certo fastidio tra i cinquantenni, i sessantenni, i settantenni di allora.
Ricordo l’incredulità stizzita di certi miei parenti più adulti quando gli raccontavo come funzionavano le cose per chi cominciava a lavorare alla fine degli anni novanta. Trovavo odioso il loro scetticismo – “se non riuscite a guadagnare quanto facevamo noi alla vostra età, se non avete trovato un modo decente per mettere su casa e famiglia, la colpa è vostra” –, mentre oggi mi appare umanamente comprensibile.
Sul piano emotivo, deve essere complicato ammettere di aver lasciato ai propri figli un mondo per molti versi peggiore rispetto a quello ereditato dai propri padri. Quando poi la marea si è alzata, e una grave difficoltà economica ha cominciato a lambire fasce anagrafiche che fino a quel momento ne erano state risparmiate, un istintivo senso di solidarietà nella disavventura ormai comune ha portato a ricredersi la maggior parte di coloro che negavano ciò che oggi risulta impossibile anche solo mettere in dubbio.
Ciò che continuo a trovare ancora odioso è l’atteggiamento della nostra classe politica davanti a questo dramma. Silvio Berlusconi, Romano Prodi, Mario Monti, Enrico Letta. Giulio Tremonti, Domenico Siniscalco, Tommaso Padoa Schioppa, Vittorio Grilli, Fabrizio Saccomanni. Roberto Maroni, Cesare Damiano, Maurizio Sacconi, Elsa Fornero, Enrico Giovannini.
Assoluto sfruttamento
Con l’esclusione dell’ultimo governo, insediato troppo di recente per partecipare degli esiti del rapporto McKinsey, vale la pena ricordare chi sono stati i presidenti del consiglio, i ministri dell’economia e delle finanze, i ministri del lavoro degli ultimi dieci anni. Essendo i responsabili politici di una rottura del patto generazionale così drammatica e al tempo stesso così eclatante e incontestabile, un sommesso mea culpa sarebbe un obbligo dovuto al ruolo istituzionale, e delle scuse sentite il minimo da pretendere sul piano umano. Invece è stata l’arroganza a dominare.
Tommaso Padoa Schioppa – cioè il figlio dell’amministratore delegato delle assicurazioni Generali – definì “bamboccioni” i giovani costretti a vivere con i genitori per la mancanza di un lavoro decente. Giulio Tremonti assicurava in diretta nazionale che la crisi in Italia non sarebbe mai arrivata o ne sarebbe uscita presto, e tutt’oggi è talmente sicuro del fatto suo che se qualcuno lo chiama “Tiresia” non coglie l’ironia.
Elsa Fornero inventò prima le lacrime di coccodrillo preventive (manifestò pubblicamente il cordoglio per la riforma delle pensioni che il governo di cui faceva parte stava per attuare, e forse il pentimento per la riforma del lavoro che non aveva ancora attuato, alla luce dei risultati una delle più inefficaci degli ultimi anni) e poi riuscì a insultare quegli stessi giovani che aveva contribuito a gettare sul lastrico definendoli choosy, troppo schizzinosi, perché qualcuno le aveva riferito che i neolaureati rifiutavano lavori al di sotto del proprio livello formativo.
In realtà si trattava quasi sempre di decidere se accettare o meno le condizioni di assoluto sfruttamento che gli venivano proposte – se le spese per raggiungere il posto di lavoro e per mangiare durante la pausa pranzo rischiano di pareggiare lo stipendio, qualcosa non va.
Come scrivevo, l’attuale governo è in carica da troppo poco tempo perché si possa onestamente considerare corresponsabile del disastroso decennio fotografato dal rapporto McKinsey.
Altrettanto onestamente, però, osservando il modo in cui anche Matteo Renzi indora l’inefficacia delle proprie politiche, da cittadino ho imparato a diffidarne. Mi è bastato assistere al trionfalismo con cui il presidente del consiglio ha accolto il ritorno del segno più davanti al prodotto interno lordo italiano nel 2015 per concludere che i suoi freni inibitori non gli impediscono di mentire su cose molto importanti.
Se nel 2015 il pil italiano ha segnato un + 0,8 per cento (molto più verosimilmente un +0,6 per cento) contro il +1,7 della Germania, il +1,2 della Francia, il + 3,2 della Spagna, il +7,8 dell’Irlanda, il +1,5 del Portogallo, questo significa solo che siamo stati meno bravi degli altri a sfruttare quel po’ di ripresa che ha attraversato il vecchio continente. Imbellettare un insuccesso fino a venderlo come il suo opposto significa mentire. Bill Clinton rischiò il posto perché lo fece sulla sua vita erotica.
A differenza di certi puritani, non credo che chi mente sulle proprie vicende private sia più bendisposto a tradire il suo paese. A un presidente del consiglio chiedo molto meno. Se all’indomani della pubblicazione dei dati sul pil Matteo Renzi si fosse presentato agli italiani illustrando in modo sobrio e virile la difficoltà della situazione, e la modestia dei risultati, ne avrei avuto stima. Per risolvere certi problemi ci vuole realismo nel leggere il presente e una certa visionarietà per costruire il futuro. Ho l’impressione che Renzi sia affetto al tempo stesso da sguardo corto e visionarietà: interpreta i numeri con molta fantasia e scambia le Cassandre per gufi.
Più della sorte di Renzi, mi interessa ovviamente quella dei suoi coetanei (i primi a essere colpiti dalla crisi) e di chi appartiene alle generazioni successive, per le quali le difficoltà sono addirittura maggiori.
Studenti partecipano allo sciopero nazionale indetto contro la riforma della scuola del governo Renzi, il 5 maggio 2015. (Giuseppe Ciccia, Pacific Press/LightRocket via Getty Images)
I pericoli della pazienza eccessiva
Mi sembrò tremendamente ingiusto Mario Monti quando parlò degli attuali trenta e quarantenni come di una generazione perduta. A me al contrario quella sembrava una generazione che aveva contribuito a salvare il paese. Se molti giovani non avessero accettato di lavorare a condizioni che per i loro genitori sarebbero state intollerabili, come avrebbero fatto a reggere in Italia – solo per fare pochi esempi – il mondo della scuola, dell’università, della sanità, della cultura, della comunicazione?
Se tuttavia una non comune capacità di resistenza e di pazienza delle ultime generazioni è innegabile – e anziché essere dileggiato dalle istituzioni, il loro sacrificio avrebbe dovuto essere pubblicamente riconosciuto – il prolungarsi della crisi oltre le peggiori previsioni le espone a pericoli di cui si vedono le prime avvisaglie.
Innanzitutto, una generazione economicamente molto debole, la cui capacità di autodeterminazione è stata ridotta al lumicino, subisce al tempo stesso con più efficacia i ricatti di determinati poteri (quando ti chiedono obbedienza in cambio di sopravvivenza) e i deliri di altri (a stomaco vuoto si ragiona male, e parlare allo stomaco dei bisognosi è da sempre la facile strategia dei demagoghi).
Dall’altro, subire per molto tempo un’ingiustizia erode con una certa facilità gli strumenti di autocritica. Essere costretti nel ruolo della vittima sociale è assai insidioso, perché ti fa sentire nella parte del giusto anche quando non lo sei. Esiste anche un’arroganza dei perdenti, che danneggia soprattutto chi è nella condizione di farsene contagiare.
All’arroganza si aggiungono il sarcasmo e il cinismo. Fino a quindici anni fa, quando le difficoltà di una e poi di due generazioni sembravano temporanee, era l’autoironia l’arma con cui si tentava maldestramente di esorcizzarle: rido dei miei problemi pur di non rappresentarli come tali davanti a un mondo in cui “vincere” è determinante.
Oggi, abbassata l’asticella, in un mondo in cui determinante è “sopravvivere”, e inizia a essere chiaro che i problemi di almeno tre generazioni sono strutturali, non potendo più nascondere una situazione palesemente drammatica, l’espediente retorico più a buon mercato per darsi un’importanza altrimenti inattingibile è passare dal fioretto usato raffinatamente su se stessi al randello con cui colpire all’impazzata tutt’intorno.
In un mondo in cui è sempre più difficile essere protagonisti della propria vita, non rimane infine che diventare tifosi. Trovo molto deludente, specie tra la classe intellettuale delle ultime generazioni, il fanatismo con cui alcuni supportano per esempio ogni mossa, persino la più indifendibile, del Movimento 5 stelle; o la santimoniosa benevolenza ai limiti del servilismo con cui altri contemplano il cerchio magico di Renzi o altri panorami della sinistra. Tanti anni di studi e di letture per abbracciare la filosofia della curva nord contro la curva sud?
Il rapporto McKinsey ha messo l’Italia all’ultimo posto nella classifica dei paesi che hanno scommesso peggio sul proprio futuro. Due delle tre generazioni che i più sfacciati considerano “perdute”, cominciano a propria volta ad avere figli, ai quali i neogenitori non potranno spesso garantire il benessere economico e il livello di istruzione di cui hanno beneficiato loro quando erano ragazzi.
Bisogna aggiungere che se non fosse stato per la generazione di chi a propria volta sta diventando nonno, molti di questi trentenni e quarantenni verserebbero in una condizione di povertà assoluta. In mancanza di un serio welfare, è stata come sappiamo la famiglia il vero ammortizzatore sociale del nostro paese, il che da una parte ci ha salvati dal disastro, mentre dall’altra non ha sempre giovato alla serenità dei rapporti tra genitori e figli, e alla capacità di interpretare in modo degno, e bello, entrambi i ruoli.
Un’avventura da compiere insieme
Nessuna generazione è mai davvero perduta. Ognuno di noi può rivendicare legittimamente un ruolo attivo nel mondo in cui vive. In Italia, la crisi economica è stata troppo lunga e gestita in modo troppo irresponsabile per non essersi trasformata in un male molto più profondo.
L’attuale compagine politica è composta da uomini la cui mediocrità impedisce di sapere anche solo dove mettere le mani, figuriamoci come. Se le cose andranno bene, e ce lo auguriamo, ridurranno di un punto percentuale la disoccupazione, ma non riformeranno l’animo malato del paese.
Per guarire, è necessario un patto intergenerazionale più serio e maturo di quello che ha funzionato a intermittenza – e con troppi fraintendimenti – negli ultimi anni. Forse la vera sfida oggi è avere la forza, nonché trovare i modi, per reincludersi socialmente laddove l’economia ha messo tanti fuori dei giochi. Non è un’avventura che si può cominciare a intraprendere da soli. Se qualcosa di buono nascerà sarà la parte sana della società a produrlo, vale a dire il senso di responsabilità, il coraggio, il cuore, la capacità di stare con gli altri, la voglia di spendersi di ogni singolo individuo. Sentirsi esclusi anche da questa sfida è condannarsi a non esistere.