La Repubblica, 25 gennaio 2013
CI FU un tempo in cui, tra ragazzi, faceva colpo: «Davvero sei apolide? Cittadino del mondo, piacerebbe anche a me!». In Italia c’ero arrivato che non avevo ancora tre anni, grazie a un passaporto panamense che mio padre si era procurato in Libano chissà come. Naturalmente quel documento diventò presto carta straccia, e dovetti pazientare la bellezza di trent’anni prima di conquistare l’agognata cittadinanza italiana per via matrimoniale. Nel frattempo avevo studiato e trovato lavoro, pagavo le tasse e mi ero sottoposto alla visita di leva militare (riformato), ma sempre relegato nel limbo che i francesi definiscono con efficace brutalità: apatride. Per la verità anche oggi che mi sento fino in fondo italiano, e guai a chi ne dubita, rivendico il diritto di custodire altre patrie nel mio cuore: Israele e il Libano, la Galizia ebraica cancellata e ripartita fraPolonia e Ucraina.Naturalmente quel documento diventò presto carta straccia, e dovetti pazientare la bellezza di trent’anni prima di conquistare l’agognata cittadinanza italiana per via matrimoniale. Nel frattempo avevo studiato e trovato lavoro, pagavo le tasse e mi ero sottoposto alla visita di leva militare (riformato), ma sempre relegato nel limbo che i francesi definiscono con efficace brutalità:apatride,cioè senza patria. Per la verità anche oggi che mi sento fino in fondo italiano, e guai a chi ne dubita, rivendico il diritto di custodire altre patrie nel mio cuore: Israele e il Libano, la Galizia ebraica cancellata e ripartita fra Polonia e Ucraina… Se sulla copertina del mio prezioso passaporto italiano non comparisse anche la scritta Unione Europea, la vivrei come una mutilazione di legittime identità plurali.
È la storia da nulla di un apolide fortunato, quella che ho vissuto. Niente al confronto dell’odissea recata in sorte dai capricci della storia a dodici milioni di persone nel mondo contemporaneo. Basta davvero poco per ritrovarsi sospesi nel nulla, privi dei diritti di cittadinanza, su questa terra. Basterebbe considerare le vaste regioni europee e del Sud Mediterraneo che nel corso dell’ultimo secolo hanno cambiato cinque o sei volte sovranità statale. I miei nonni nacquero sudditi dell’impero austro-ungarico in una terra divenuta successivamente polacca, sovietica, annessa al Terzo Reich germanico, di nuovo sovietica, ora ucraina. Fate un po’ i conti, ci sono vecchi che le hanno passate tutte.
Ma senza andare troppo lontano pensate ai figli dei profughi delle guerre balcaniche fuggiti in Italia. Nati nella nostra penisola, migliaia di loro hanno scoperto che il passaporto jugoslavo dei loro genitori era diventato inservibile: né le nuove entità statali bosniache, serbe, slovene, croate erano disposte a riconoscerli come titolari di un’origine certa. Così l’Italia s’è riempita di nuovi apolidi e li ha lasciati marcire a bagnomaria, spesso privi anche solo di residenza, non parliamo di certificato di nascita, magari perché alloggiati nei centri di raccolta dove nel frattempo ciabituavamo a chiamarli nomadi. Come se il nomadismo fosse una loro scelta. Sono cresciuti senza documenti e pieni di rabbia, letteralmente spaesati. In Slovenia è toccato così a 25mila cittadini di essere depennati così dall’anagrafe. Li chiamano, semplicemente, i “cancellati”. Una parola che non lascia margine a equivoci. Un sopruso che per fortuna la Corte europea per i diritti umani ha dichiarato illegale.
Se poi allarghiamo lo sguardo ai territori più lontani divenuti teatro di guerre etniche e tribali, dal Bangladesh alla Birmania, dal Kuwait all’intero continente africano, la spoliazione per decreto della cittadinanza si rivela essere prassi odiosa ma sistematica. Riguarda milioni e milioni di persone: gli “scarti umani” rinchiusi nei campi profughi, ma anche popolazioni residenti considerate intruse dai dominatori. Si tratta magari di luoghi in cui il concetto moderno di nazionalità e cittadinanza è sempre rimasto sfumato, sicché l’apolidia s’impone come una nuova gabbia incomprensibile. Lungi dal definire la possibilità affascinante di essere transazionali, cittadini del mondo, titolari di origini e identità molteplici, condanna i malcapitati all’antica condizione di paria. Privi di diritti elementari come l’accesso all’istruzione, ai servizi sanitari, alla proprietà. Vietato contrarre matrimonio, registrare la nascita di un figlio, viaggiare e, tanto meno, votare.
Tutto questo io non l’ho vissuto: l’inclusione nel Belpaese che m’è toccato in sorte, sia pure con estremo ritardo, alla fine ha prevalso. Ma l’Italia resta un paese in cui non sono bastati ancora i ripetuti appelli del Presidente della Repubblica per approvare una legge che naturalizzi i figli di stranieri nati sul suo territorio. Perfino l’attuale ministro degli Interni s’è opposta, sostenendo in tv che altrimenti diventeremmo la meta facile di troppe donne incinte! A dimostrazione che sono ancora forti le barriere culturali da abbattere, pur nell’epoca delle grandi migrazioni e del superamento degli Stati-nazione, se si vuole impedire che i dodici milioni di apolidi senza diritti si moltiplichino a dismisura. Mentre i nostri ragazzi si sentono sempre di più cittadini del mondo e — ignari — provano tuttora una certa invidia per chi può fregiarsi del titolo di apolide