loader
menu
© 2024 Eddyburg
Agostino Petrillo
I confini a geometria variabile di un'ecologia dell'esclusione
18 Maggio 2008
Capitalismo oggi
Una “analisi delle politiche contemporanee di controllo sociale, dal muro in Palestina alle «comunità recintate» nelle metropoli, all'urbanesimo off-shore negli Emirati”. Da il manifesto del 24 giugno 2007

Da alcuni anni i geografi tedeschi vanno sottolineando i pericoli connessi a quella che chiamano la «terza fase» della globalizzazione. In particolare la «scuola della frammentazione», così è definita questa generazione di studiosi, sostiene che gli aspetti distruttivi della globalizzazione non sono stati adeguatamente considerati, e che distanze sempre più grandi si vanno scavando tra realtà territoriali spazialmente vicine o addirittura immediatamente contigue. Nella grande kermesse dei territori «che vincono» e di quelli «che perdono» linee di separazione inedite si vanno disegnando, nuove differenze si creano e si approfondiscono tra mondi un tempo prossimi e in sostanza in passato storicamente analoghi.

La strategia delle barriere

L'architettura dei muri e l'urbanistica della separatezza che hanno costituito una delle novità più eclatanti degli ultimi decenni parrebbero dare almeno in parte ragione ai teorici della frammentazione, o quantomeno costituire un elemento di conferma delle loro tesi. In questa direzione procede il recente lavoro di Alessandro Petti, Arcipelaghi e enclave. Architettura dell'ordinamento spaziale contemporaneo, (con prefazione di Bernardo Secchi, Bruno Mondadori, euro 18).

Nella intenzione dell'autore vi è più limitatamente l'idea di mettere in luce come l'erezione di nuove barriere faccia parte di una più generale strategia di disciplinamento sociale e come i dispositivi utilizzati in sede locale per finalità di marginalizzazione, separazione ed esclusione debbano necessariamente rinviare ad un piano geopolitico generale.

Tra le maglie dell'Impero si aprono dunque linee di frattura che vanno «ricomposte» con modalità di esercizio della violenza del tutto nuove. In particolare i concetti di stato di eccezione e di «campo», che fanno da filo conduttore agli ultimi lavori di Giorgio Agamben, rappresenterebbero le possibili chiavi esplicative delle trasformazioni territoriali in corso. Il tutto andrebbe quindi letto in una prospettiva di mutamenti di paradigmi del controllo. In particolare da queste inedite modalità di esercizio del potere emergerebbero due modelli applicativi: quello dell'arcipelago e quello della enclave.

La differenza fondamentale tra le due realtà consiste nel fatto che l'arcipelago è collegato alle altre realtà insulari che lo compongono, mentre la enclave rimane un universo separato, racchiuso in se stesso. Il modello proposto è particolarmente efficace nelle pagine che vengono dedicate alla vicenda dei territori palestinesi e all'edificazione del muro. Dalla dettagliata ricostruzione si evince come la situazione attuale sia il risultato di un lungo lavorio della politica e dell'urbanistica israeliana, l'esito di un disegno mirato fin dall'inizio a istituire delle relazioni di connessione (tra l'arcipelago delle colonie e dei nuovi insediamenti) e simultaneamente a introdurre degli elementi di disconnessione, trasformando i territori palestinesi in enclave non comunicanti tra loro. In questo senso il muro viene letto come il coronamento simbolico e la concretizzazione materiale di un progetto più complesso, di un divide et impera condotto con mezzi più sofisticati della semplice erezione di barriere.

Sotto questo profilo le pagine in cui Petti tratta dei territori rappresentano uno stimolo importante a comprendere meglio la questione, rintracciandone le origini nell'urbanistica e nelle scienze del territorio israeliane.

L'autore rende inoltre estremamente efficace e vivida la ricostruzione della genesi della frammentazione dei territori interpolando sue vicende personali (ha sposato una ragazza palestinese) e descrivendo nel dettaglio il funzionamento dei check-point e delle frontiere interne. Meno convincente appare il tentativo di applicare la coppia concettuale arcipelaghi/enclave ad altre realtà contemporanee, quali le gated communities e l'urbanesimo off shore negli Emirati. Qui il modello sembra funzionare meno, sia perché sfuma in parte la doppia funzione dei muri così ben illustrata nelle parti che riguardano i territori: da una parte quella di limitare e di escludere, dall'altra quella di favorire invece i collegamenti altrui, proteggendo un determinato ordine politico, economico e sociale.

Il recinto di Falluja

Nel caso della autosegregazione delle gated communities, del «gran rifiuto» che esse oppongono ad un intero mondo circostante i meccanismi sono più complessi e che il parallelo regge solo limitatamente su di un piano prettamente «fenomenologico». Diversa è anche la questione delle enclave di lusso quali i paradisi off-shore, di cui forse la componente economica andrebbe più energicamente sottolineata. Ma rimane da scrivere un capitolo del libro di Petti, quello sull'Irak. Qui il modello del muro, per altro già applicato a Falluja e a Samarra, circondate da mura mirate non a difendere, ma a rinchiudere, e trasformate in carceri a cielo aperto, sta trovando a Baghdad una sua realizzazione mai vista in precedenza su grande scala urbana.

È un muro che viene rafforzato da misure di controllo tecnologicamente avanzate e che non si limita a circondare una zona della città, ma si articola al suo interno individuando quali sono le aree da «circondare» a seconda della pericolosità maggiore o minore della popolazione che ci vive. Finora sono state individuate dieci zone.

Se il muro di Baghdad verrà completato ci troveremo di fronte allo smembramento di una metropoli e alla sua scomposizione in una serie di spazi frammentati e ipercontrollati, a volte anche tra loro ostili, tali da far impallidire il ricordo di Belfast. Da queste enclave emerge sì prepotentemente il paradigma agambeniano del campo esteso alla città intera. Ma chi avrà il coraggio di studiarle?

ARTICOLI CORRELATI
12 Luglio 2019

© 2024 Eddyburg