Ricorrono nel 2012, e precisamente domani,i cinquant’anni della legge 18 aprile 1962, n. 167, recante «Disposizioni per favorire l’acquisizione di aree fabbricabili per l’edilizia economica e popolare». Ricorrono altresì quest’anno i settant’anni della legge urbanistica, la l. 18 agosto 1942, n. 1150, ma con un significativa differenza. La legge urbanistica, per quanto approvata nel 1942, era il frutto di un’elaborazione risalente a dieci anni prima, come ben risulta dagli studi sulla sua formazione (v. V. De Lucia, La legge urbanistica del 1942); la l. 167 era invece frutto proprio del suo tempo.
Dopo il governo Tambroni del 1960, che aveva avuto l’appoggio determinante del MSI, si era formato il terzo governo Fanfani, un monocolore democristiano di «restaurazione democratica», conosciuto anche come il governo delle «convergenze parallele». La Democrazia cristiana aveva tenuto nel settembre 1961 un convegno di studi a San Pellegrino e poi, alla fine di gennaio 1962, il suo ottavo congresso nazionale a Napoli: erano maturate così le condizioni per un nuovo governo. Fanfani succedeva a sé stesso e nel febbraio 1962 formava il suo quarto governo, un tripartito Dc-Psdi-Pri, con un programma concordato anche con il Psi. Per iniziativa di quel governo venivano approvate nello stesso anno 1962 due importanti riforme. La l. 31 dicembre 1962, n. 1859 istituiva la scuola media unica, realizzando così non solo una riforma scolastica ma una vera riforma sociale: si superava il modello classista della riforma Gentile fondato sulla distinzione tra scuola classica umanistica e scuola di avviamento professionale, senza insegnamento del latino e senza possibilità di accesso agli studi superiori. La l. 6 dicembre 1962, n. 1643 nazionalizzava le imprese esercenti le industrie elettriche, ponendo così le basi per la diffusione della rete elettrica nelle zone rurali, trascurate dalle imprese private, al fine di favorire il loro sviluppo.
Prima ancora di quelle riforme, e giusto nell’anniversario delle elezioni del 18 aprile 1948 per la prima legislatura repubblicana, il Parlamento approvava il disegno di legge sull’acquisizione di aree fabbricabili per l’edilizia economica e popolare avviato dal precedente governo nel quale ministro dei lavori pubblici era stato Benigno Zaccagnini, sostituito nel quarto governo Fanfani da Fiorentino Sullo.
L’intervento pubblico per l’edilizia popolare aveva una lunga tradizione, risalente all’inizio del secolo. La l. 31 maggio 1903, n. 254, nota anche come legge Luzzatti, era stata seguita da vari altri provvedimenti legislativi, sistemati nel corso del tempo in testi unici, nel 1908, nel 1919 e, da ultimo, nel 1938 (r.d. 28 aprile 1938, n. 1165). Dopo la guerra, inoltre, proprio Fanfani, ministro del lavoro nel quinto governo De Gasperi, aveva promosso un importante progetto per incrementare l’occupazione operaia agevolando la costruzione di case per i lavoratori: la l. 28 febbraio 1949, n. 43 aveva istituito la gestione Ina-casa, rinnovando le forme organizzative e finanziarie dell’intervento pubblico per l’edilizia popolare. La gestione Ina-casa aveva prodotto, nei suoi due piani settennali,risultati imponenti: le case Fanfani, come vennero presto denominate, furono realizzate in gran numero e su tutto il territorio nazionale, anche in centri minori (su quella esperienza v. da ultimo il volume a cura di Paola Di Biagi, La grande ricostruzione. Il piano Ina-casa e l’Italia degli anni ’50 , Donzelli, Roma, 2001).
La l. 167 del 1962 costituiva però un significativo sviluppo poiché affrontava il tema, in precedenza trascurato, della disciplina urbanistica delle aree per l’edilizia economica e popolare, integrando e sviluppando la legge urbanistica del 1942.
I Comuni con popolazione superiore ai 50.000 abitanti e quelli capoluogo di Provincia erano tenuti a formare un piano delle zone da destinare alla costruzione di alloggi a carattere economico e popolare (peep); gli altri Comuni ne avevano facoltà, ma potevano anche esservi obbligati dal Ministro per i lavori pubblici, ove ne riconoscesse la necessità. La legge stabiliva un termine stringente per la formazione del piano, 180 giorni dalla data di entrata in vigore della legge o dalla comunicazione della decisione ministeriale, e prevedeva anche, in caso di inadempienza, l’intervento sostitutivo mediante un commissario nominato dal prefetto.
Le aree da comprendere nel piano dovevano essere scelte di norma nelle zone destinate a edilizia residenziale nei piani regolatori generali vigenti, con preferenza in quelle di espansione dell’aggregato urbano. In caso di mancanza del prg era prevista la formazione, insieme al peep, di un programma di fabbricazione. La legge richiedeva dunque sempre una pianificazione urbanistica generale dell’intero territorio comunale entro cui inquadrare la specifica pianificazione urbanistica dell’edilizia economica e popolare, configurata come esecutiva di quella generale. Il sistema della pianificazione a cascata della legge urbanistica del 1942 veniva confermato nella sua impostazione ma anche attenuato nelle modalità operative poiché si consentivano peep in variante dei prg. Con un unico procedimento si poteva variare il prg e approvare un peep che risultasse conforme al prg così come variato. In questo caso il procedimento di formazione del peep era quello del prg: il piano era soggetto ad approvazione del Ministero dei lavori pubblici, mentre i peep conformi al prg (e senza osservazioni da parte delle amministrazioni centrali dello Stato) erano approvati dal provveditore regionale alle opere pubbliche.
La configurazione dei peep quali piani esecutivi di una pianificazione generale si manifestava anche sotto altri aspetti. Ai peep veniva attribuito lo stesso valore dei piani particolareggiati di esecuzione del prg previsti dalla legge urbanistica, compresa l’equivalenza a dichiarazione di pubblica utilità delle opere in essi previste che consentiva l’espropriazione delle aree. La legge, anzi, accelerava le procedure stabilendo che l’approvazione dei peep equivaleva anche a dichiarazione di indifferibilità ed urgenza di tutte le opere, impianti e edifici in esso previsti, in modo da consentire anche l’occupazione d’urgenza in via anticipata rispetto all’espropriazione.
L’espropriazione diventava il modo normale di realizzazione della pianificazione urbanistica, sia pure limitatamente alla parte di pianificazione riguardante l’edilizia economica e popolare. Veniva così ripresa una previsione della legge urbanistica del 1942, quella relativa all’espropriabilità delle aree urbane (art. 18), che è stata largamente trascurata dai Comuni, soprattutto per mancanza delle necessarie risorse finanziarie, ma che, se effettivamente utilizzata, avrebbe consentito uno sviluppo urbanistico qualitativamente ben diverso e migliore di quello concretamente realizzatosi.
I Comuni potevano riservare a sé stessi l’acquisizione fino a un massimo del cinquanta per cento delle aree comprese nel piano, salvo cessione del diritto di superficie o rivendita a enti o privati che si impegnassero a realizzare la costruzione di case economiche e popolari. Le rimanenti aree potevano essere richieste per la costruzione di case popolari da parte di altri soggetti: lo Stato e gli enti pubblici territoriali, l’Incis, l’Ina-casa, le società cooperative, l’Inpgi, altri enti senza fine di lucro operanti nel settore. La legge, dunque, assegnava un ruolo centrale ai Comuni nella definizione degli aspetti urbanistici dell’edilizia economica e popolare, ma lasciava un assetto pluralistico per la realizzazione degli immobili: il ruolo dei Comuni non era esclusivo, ma almeno la metà delle aree doveva essere resa disponibile per la realizzazione degli immobili da parte di soggetti diversi.
Per l’espropriazione delle aree la legge adottava soluzioni riformiste, ma non estremiste. L’indennità di espropriazione era infatti determinata secondo la legge generale sulle espropriazioni (l. 25 giugno 1865, n. 2359) e quindi era commisurata al valore venale; tuttavia la legge si proponeva di contenere la rendita fondiaria e a tal fine stabiliva che il valore venale fosse determinato senza tener conto degli incrementi di valore dipendenti, direttamente o indirettamente, dalla formazione e attuazione del piano. Il principio non era nuovo, poiché era stato già stabilito dall’art. 38 della legge urbanistica, ma la sua conferma, quanto mai opportuna, era espressione di una precisa volontà politica che continuò ad animare i propositi riformatori del governo. La legge inoltre, sempre per contenere la rendita fondiaria, stabiliva che il valore venale dovesse essere riferito a due anni precedenti alla deliberazione del piano, invece che al momento dell’espropriazione (per questo aspetto, tuttavia, la legge venne dichiarata illegittima da Corte cost., 22/1965, per il lungo intervallo di tempo possibile tra l’approvazione del peep e l’espropriazione nonché per le disparità di trattamento tra proprietari espropriati in momenti diversi).
La legge inoltre conciliava il potere pubblico di pianificazione e di espropriazione col principio liberale del minimo sacrificio dei diritti privati compatibile con il perseguimento dell’interesse pubblico. I proprietari delle aree ricomprese nei peep potevano evitare l’espropriazione impegnandosi direttamente, con la richiesta della licenza edilizia, a costruire sulle aree stesse fabbricati aventi caratteristiche di abitazione di tipo economico o popolare, sempre che le opere venissero iniziate entro centoventi giorni dal rilascio della licenza e venissero ultimate entro il biennio dall’inizio della costruzione.
La l. 167 ebbe successo, segnando un importante progresso sia per le realizzazioni di edilizia economica e popolare sia per la disciplina urbanistica. Modificata e integrata, soprattutto dalla l. 865 del 1971, essa è ancora formalmente in vigore, anche se di fatto la sua utilizzazione è ormai da tempo marginale. Il problema sociale dell’abitazione ha assunto in mezzo secolo contorni diversi, se è vero che oltre l’ottanta per cento delle famiglie oggi vive in casa di proprietà. Ma rimane sempre una fascia, pur piccola, di popolazione bisognosa, tanto bisognosa da non poter aspirare alla casa di proprietà per impossibilità di ricorso al credito e in difficoltà anche nel sostenere i canoni di locazione del mercato, pienamente liberalizzato dalla fine del 1998. L’edilizia economica e popolare, che con la piena attuazione dell’ordinamento regionale aveva assunto la nuova e corretta denominazione di edilizia residenziale pubblica, si è molto ridotta ed è stata sostituita nel linguaggio corrente delle amministrazioni locali dall’housing sociale, una miserevole espressione entrata, a fini fiscali, persino nella legislazione statale (si veda la rubrica dell’art. 57 del cd decreto Cresci Italia, d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, conv. in l. 24 marzo 2012, n. 27).Una stagione dello Stato socialee del riformismo sembra conclusa, ma non con l’esaurimento del bisogno, bensì con la progressiva riduzione dell’intervento solidaristico a sostegno dei più deboli.
Sul piano strettamente urbanistico la l. 167 ha largamente ispirato la legislazione (statale e regionale) più recente sui piani esecutivi in variante del piano regolatore generale. Ma quel sistema, che poteva avere una giustificazione nel 1962 e limitatamente all’edilizia economica e popolare, è diventata un vero tarlo che ha inficiato un corretto sistema di pianificazione urbanistica. Inoltre la legislazione successiva non ha ripreso il contrasto alla rendita fondiaria, una tassa a favore dei proprietari delle aree che grava molto pesantemente sul settore immobiliare che finora è rimasta immune dalle iniziative intraprese per il contenimento delle rendite e per la promozione dello sviluppo economico.