Di mattina presto da vent’anni Antonio Paolucci attraversa piazza Signoria sulla sua bicicletta. Scende, incatena il due-ruote e da una porticina dirimpetto a Palazzo Vecchio sale nel suo ufficio con finestra sul retro degli Uffizi.
Antonio Paolucci è uno storico dell’arte con la politica nel sangue e uno dei personaggi più in vista del patrimonio artistico italiano. Allievo di Longhi e di Arcangeli, riminese benché Firenze, dove è arrivato come giovane funzionario nel 1969 e dove è soprintendente dei musei cittadini dall’ 88, lo consideri «suo», è un uomo sia diplomatico che a volte brusco. Ha guidato Venezia, Verona, Mantova, il fiorentino Opificio delle pietre dure, è stato ministro dei beni culturali (unico tecnico salito su quella poltrona) nel governo Dini dal gennaio del ’95 al maggio del ’96. Il 29 settembre compie 67 anni, il giorno dopo andrà in pensione lasciando la carica di direttore regionale e, a Cristina Acidini, quella di soprintendente del polo museale. Paolucci avrebbe preferito restare. Il sindaco Domenici ha promesso che lo assolderà in un incarico impegnativo, forse assessore alla cultura.
Dalla sua giovinezza ad oggi il modo di percepire il patrimonio artistico italiano è cambiato molto.
«Quando sono entrato a 29 anni in soprintendenza si battevano le lettere su macchina da scrivere Olivetti con carta copiativa interfoliata. Ricordo che noi funzionari scioperammo chiudendo i musei per 15 giorni e, immagini un po’, i giornali non ne parlarono. Andavo in bici alla Nazione a portare i foglietti della protesta sindacale supplicando che me li pubblicassero. Oggi se gli Uffizi chiudono mezza giornata ne parlano da Tokyo a New York».
Non è cambiata solo la percezione dell’arte: più volte lei ha stigmatizzato che il capoluogo toscano punti tutto sui musei e il turismo. E il discorso investe in forma ancora più drammatica Venezia.
«In 35-40 anni Firenze è diventata una «one company town», vive di solo un’industria, i musei, come Detroit viveva di auto. A Venezia il processo è arrivato conclusioni più radicali. È un fenomeno negativo: una città vera è plurale, ha industrie, artigiani, finanzieri, operai...».
Nel ’75, anzi a fine ’74, è nato il Ministero per i Beni Culturali.
«Quando sono entrato, la direzione generale delle belle arti dipendeva dal Ministero della Pubblica Istruzione. Quando nacque il ministero con Spadolini lo salutammo tutti con gioia. Oggi però non so se sia giusta questa cesura tra istruzione, scuola e università, e beni culturali: ha tagliato le gomene dalla scuola e questo, con altre ragioni, ha indirizzato i beni culturali verso il tempo libero, lo spettacolo, il turismo».
E lei non lo apprezza.
«No. Nessuno pensa agli Uffizi o al Louvre come a una biblioteca di figure, tutti li collegano al divertimento, allo spettacolo. Lei può dire alla sua fidanzata di venire in Galleria e poi cenare fuori ma non ce la vedo proprio a invitarla a leggere le novelle di Cervantes in biblioteca. Però guardare il Barocci o Caravaggio è difficile come leggere Cervantes. Anzi, è più difficile».
Però oggi numerosi musei aprono anche il pomeriggio, un tempo non accadeva mai.
«Quando sono diventato soprintendente a Firenze nel marzo dell’88 l’unico museo aperto dopo le una erano gli Uffizi, la domenica nessuno. Adesso nel Polo fiorentino aprono tutti mattina e pomeriggio domenica compresa. Allora, se volevi comprare una cartolina al museo non ci riuscivi, oggi c’è anche troppo. È un mutamento radicale. Osservo anche un altro cambiamento, culturalmente tragico. Negli anni 30 agli Uffizi entravano 50 mila persone all’anno, oggi un milione e mezzo. Ebbene, c’erano più persone in quei 50mila che uscivano dalla Galleria avendo capito qualcosa rispetto alla cifra di oggi perché appartenevano a una élite sociale e culturale. Il popolo dei musei oggi è formato in grandissima maggioranza da gente che guarda solo la tv, non ha mai letto un libro e non saprebbe scrivere mezza cartella di riflessioni».
Supponiamo che quanto afferma sia giusto. Però lei fa, e bene, il divulgatore in tv, nei giornali, amplia il raggio d’azione dell’arte anche a chi magari non legge libri: il suo agire contraddice il suo discorso di élite.
«Non ho detto che deve esserci meno gente, non difendo la cultura di élite. La mia è una constatazione, ma qualcuno ha sbagliato se la gente esce ignorante. Ha fallito la scuola, abbiamo fallito noi che non diamo strumenti didattici, ha fallito la televisione che sfodera idiozie. Il dedicarmi alla divulgazione dimostra invece che credo nell’incivilimento culturale per il quale - ne sono convinto - il museo è il luogo adatto, ma mi dispiace che la gente lo attraversi come acqua che scivola sulla pietra».
È cambiato anche il modo di pensare ai beni culturali: oggi tutto , dal palazzo antico a Botticelli, viene visto anche con occhio «economico». C’è stato perfino chi voleva vendere...
«È un cambiamento ambivalente, positivo per certi aspetti, negativo per altri. È facile dire che il museo è motore di sviluppo, di occupazione ed economia, ed è in parte vero. La concessionaria che dal ’97 governa biglietti e bookshop nei 20 musei fiorentini ha creato 300 posti di lavoro e con 5milioni di visitatori l’anno introita 30 milioni di euro. Mettiamoci accanto Pompei, Roma, Venezia... Ma chi immagina mirabolanti profitti dai beni culturali sbaglia di grosso: hanno una fruttuosità sì immensa ma non monetizzabile né misurabile. La fruttuosità è che dietro ogni paio di scarpe, ogni bottiglia di vino e foulard venduto a Sidney come a Vancouver ci sono i cipressi della Val d’Orcia, Botticelli, Michelangelo. È l’artisticità il moltiplicatore del made in Italy. La moda è l’unico nostro primato rimasto nel mondo perché la qualità nasce dall’artisticità del Paese: si inventano certi colori perché li abbiamo assorbiti dalla mamma. Peccato che nessun politico faccia questa riflessione».
Anni fa lei scatenò polemiche dicendo che l’arte italiana finisce con Tiepolo. Eppure i futuristi, DeChirico, l’Arte povera e la Transavanguardia hanno avuto tutti una portata internazionale. Lei è lo storico dell’arte a cui sfugge il proprio tempo?
«Dissi che per tre secoli, tutto il ’500, il ’600 e il ’700, la lingua figurativa egemone nel mondo era quella italiana, la si parlava dalla Polonia al barocco nell’America Latina, dalla Francia a San Pietroburgo. Questa egemonia finisce con Tiepolo e con il Canova; i centri artistici sono diventati altri. È un’affermazione che ho pronunciato proprio perché sono uno storico dell’arte».
«Rivendicazioni» come quella del Comune di Firenze che, tempo fa, voleva il David di Michelangelo rivelano una sensibilità localistica per gestire l’arte statale. Lei si è sempre opposto: perché?
«Credo nell’articolo 9 della Costituzione che dice “la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione”. Con Repubblica intendo tutti gli italiani a cui stanno a cuore le chiese rupestri della Calabria come gli ulivi nella Val d’Orcia. Dopo 40 anni sono sempre più convinto che la tutela è tanto più efficace quanto più è lontana e indifferente al luogo. Un sindaco deve avere voti: come fa a dire di no a una richiesta di permesso per aprire una pizzeria accanto a una chiesa? Un governatore della Regione è meno pressato, un ministro che deve star dietro a ottomila Comuni è indifferente al problema di quel singolo cittadino. E si parli di Italie, non di Italia: l’Emilia Romagna è molto diversa dalle Puglie. Bisogna mantenere la nazionalità della tutela condividendo la valorizzazione con Regioni e Comuni».
Cosa rifarebbe e cosa no?
«Rifarei tutto con entusiasmo. Due sono le cose di cui vado più orgoglioso: il restauro della Basilica di San Francesco ad Assisi dopo il terremoto, di cui ero commissario, e l’acquisizione alla città di Firenze dell’eredità dell’antiquario Bardini, con il parco e un insieme di opere d’arte; un risultato raggiunto perché ero ministro. Non mi viene in mente nulla che non rifarei».
Quali urgenze ha l’arte oggi in Italia?
«Il ministero è un gerontocomio, non si fanno concorsi, va rinsanguato. Se un’azienda non ha 30enni e 40enni nello staff uscirà dal mercato. Noi non siamo un’azienda ma il principio resta valido, è a quell’età che si hanno entusiasmo, creatività, si propongono novità».
Dal ’90 al ’95 fu consigliere comunale a Firenze per la Democrazia cristiana. Rivendica o contesta il primato della politica nel gestire la cosa pubblica?
«Se è per questo ho partecipato anche alla lista dell’Asinello di Rutelli alle europee. Ritengo importante far politica perché il tecnico puro è portato - in buona fede - a ragionare solo secondo il suo mestiere. Invece se fai politica capisci la straordinaria concreta realtà degli uomini e delle donne. Quello che gli antipolitici chiamano arruffianamento è la vita, anche nel nostro mestiere devi comprendere le ragioni degli altri. A volte un eccesso di tutela da manuale può far danni: se proibisci di aprire un gabinetto in una casa medioevale il proprietario o la lascia degradare o ne fa uno abusivo. Non deve esistere il tecnicismo puro. D’altronde la società civile quando ha sostituito la politica non ha brillato».