Il Fatto Quotidiano, 24 ottobre 2016 (p.d.)
Mardin combatte – kalashnikov, kefiah e scarpe da corsa – nello Ypg, Yekineyen Parastina Gel, le Unità di protezione del popolo, milizie volontarie e braccio armato del Pyd, il Partito dell’Unione Democratica del Kurdistan.
A nervi saldi e cuore caldo, in perenne fuga da un’enclave militare all’altra, il guerrigliero che sa correre come una lepre sotto le nubi nere della notte anatolica si fa chiamare così in onore della sua città natale. Torrette di controllo dei soldati di Erdogan, cavallo di frisia, si scappa da un lato all’altro solo col buio. Durante la corsa dietro di te lasci la Turchia, davanti a te si spalanca il Rojava, nome della terra curda dell’ovest che si estende a nord est della Siria. Il debutto della loro utopia politica rimane in corso, un mondo in evoluzione mentre in quello arabo continua la rivoluzione. In Siria sono scoppiate due guerre in una sola per la nazione più numerosa del mondo che non ha mai avuto uno Stato ma da sempre ha una lotta, un popolo che non ha mai avuto confini ufficiali eppure li difende con la vita per hèviya azadiyè, speranza di libertà.
Mardin combatte per quel triangolo di terra rovesciato che è il Kurdistan che non ha frontiere riconosciute, se non quelle segnate dal sangue dei suoi martiri. È la terra che non c’è sia per chi scappa dalle bombe sia per chi resta a tirarle, dove rimangono tutti i pronti alla morte per la walateme, la nostra terra, i figli di quello che chiamano Apo. È Abdullah Ocalan l’uomo che ha disegnato per la prima volta il perimetro di questa chimera socialista e vive solo da quasi vent’anni, detenuto unico dell’isola prigione di Imrali nel mar di Marmara. Più di cinquantamila morti curdi fa, tutti ammazzati dall’esercito turco, se Apo nel 1978 non avesse fondato il Pkk, se nel 1984 il Pkk non avesse imbracciato armi e montagne, oggi Mardin, le soldatesse con la treccia che dormono in divisa e al mattino, prima lavarsi la faccia nel fiume, se ne infilano un’altra identica, insieme allo Ypg, non esisterebbero.
Per i civili se non è inferno siriano, è purgatorio iracheno.
Nel campo profughi di Domiz, a Dohuk, l’asta affonda in metri di fango, sotto pioggia battente, mentre sulla bandiera sventola il rosso, verde e bianco, il tricolore del sangue, della terra e dell’uguaglianza, con al centro il sole a ventuno raggi. Dall’inizio della guerra sono migliaia i curdi, insieme alle minoranze di yazidi ed assiri in arrivo da ogni provincia siriana, che si sono rifugiati nella regione tenuta in pugno da Mas’ud Barzani dal 2005, nel campo gestito dall’Unhcr. Le tende sono case, sono cliniche, sono negozi e sono scuole improvvisate di una tendopoli profuga che è ormai una città dentro l’altra, a una paio di chilometri dalla Capitale del Kurdistan iracheno, Erbil, solo 80 chilometri dalla roccaforte jihadista adesso sotto assedio.
Il popolo che ha insegnato all’Europa che vuol dire resistere a Kobane, ora ricorda che vuol dire avanzare a Mosul. Dei 30mila soldati delle unità musulmane che marciano verso il fortino nelle mani del Califfato dal 2014 in queste ore, sono 4mila i curdi peshmerga tre le milizie sciite, le tribù combattenti sunnite, soldati iraniani ed esercito iracheno.
I Kurdistan ormai sono più di quattro, alcuni fanno sponda in Europa dopo l’esodo mediterraneo, quando alla diaspora fuggita dalle guerre di ieri verso Germania e Scandinavia, si è aggiunta quella di oggi: del milione di siriani scappati attraverso la Turchia nel 2015, sono centinaia di migliaia i non censiti che parlano kurmangi e sorani, dialetti della lingua kurdì. Inshallah Allemagne. Merkel Miracle.Open the borders, maifreen.
A Idomeni, ognuno era “my friend” quando, tenda dopo tenda, si accendevano i falò, si bruciava gomma, legno, scarpe, calava la notte e si alzava la puzza acida di plastica bruciata e piscio. Dall’altro lato, nella Las Vegas macedone, nel deserto di Gevgelija, brillava la luce rossa dei casinò che illuminava il corridoio chiuso del passaggio vietato. Sognare la Germania in Grecia, come facevano i curdi bloccati dalla polizia, era un paradosso per gli ellenici affondati dall’Europa. Mohamed parlava francese, inglese, armeno, turco, arabo, kurmangi e persiano. Per 23 anni era stato un contabile ad Aleppo: “Ora questa è la mia nuova vita. Una ciotola di riso per terra”. Hussein aveva una maglia dei Pink Floyd, un’estensione all’orecchio e le forbici in mano. Era il barbiere della Rojava migrante sui binari di Idomeni. Stava tagliando i capelli a Rudyn: “Io ho un vero nome curdo, un nome socialista. Noi non torniamo indietro, per gli shabab curdi, siriani o iracheni, la morte è sempre turca”. Da campeggio, da circo, militari, da beduini, di plastica, di tappeti: quelle tende ad Idomeni a più di un curdo ricordavano quelle fatte di foglie e rami, nascoste tra i massi, della guerriglia sulle montagne. Chi era arrivato per primo al binario chiuso d’Europa aveva occupato un posto nel treno immobile e tirava su le coperte nella cuccetta viaggiatori ogni sera. Chi ci riusciva, dormiva. E chi dormiva forse sognava che quel vagone arrugginito, fermo da mesi, cominciasse improvvisamente a muoversi per tornare indietro verso la terra che non esiste o ripartire verso nord.