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Anche quest’anno si celebra, sia pure in maniera sempre più fiacca e svogliata, la “Giornata della Terra”, “Earth Day”, per la quarantacinquesima volta da quel 22 aprile 1970 che segnò l’inizio, di fatto, della "primavera dell'ecologia". Il 1970 arrivava dopo una lunga serie di proteste contro le esplosioni delle bombe nucleari nell’atmosfera; dai deserti africani, asiatici o dagli isolati atolli del Pacifico tali tests americani, russi, francesi, immettevano nell’aria elementi radioattivi che ricadevano poi anche a migliaia di chilometri di distanza, sulle terre coltivate e nelle acque. Era la stagione della protesta contro la diffusione planetaria dei pesticidi clorurati persistenti, come il DDT, e contro l’uso di erbicidi contaminati di diossina nel Vietnam; le città industriali erano afflitte da un traffico congestionato e la loro aria era oscurata dai fumi industriali; il petrolio copriva vaste superfici del mare.
In quella lontana primavera, in tutti i paesi industriali fu come se si aprissero gli occhi a un gran numero di persone: in un'epoca di grande sviluppo economico gli abitanti dei paesi industrializzati si accorsero improvvisamente che le fumose ciminiere delle fabbriche non segnavano l'avanzata del progresso, ma buttavano nell'atmosfera polveri e sostanze cancerogene e acidi che andavano a finire nei polmoni dei cittadini, nei fiumi, sui boschi. L'automobile, massimo segno del successo tecnologico, appariva improvvisamente come un “Insolent chariot”, l’arrogante veicolo che, invece di liberare l’uomo dai vincoli delle distanze, costringeva a muoversi a pochi chilometri all'ora, tutti in fila, in mezzo a un'atmosfera inquinata da fumi, metalli, veleni. La plastica, trionfo dell'industria chimica sintetica, era un bellissimo materiale ma, dopo l’uso, restava indistruttibile e copriva i mari, si fermava sugli argini dei fiumi, svolazzava per i campi coltivati. Il lavoro nelle fabbriche liberava grandi masse di persone dalla miseria secolare a prezzo di incidenti, avvelenamenti, morti, tanto che alcuni scrissero che "lavorare fa male alla salute".
Nella primavera di quel 1970 una nuova generazione di giovani, gli stessi delle lotte studentesche e operaie in California, a Parigi, a Berlino, a Milano, si accorsero che le Università, i grandi scienziati, il potere economico e politico, avevano tenuto nascosti gli aspetti negativi del "progresso" merceologico; furono scoperte parole magiche e sconosciute come "ecologia", che divenne domanda di un cambiamento verso un mondo meno violento e più ospitale per gli esseri umani. Anche in Italia in quel 22 aprile 1970 la Federazione delle Associazioni Scientifiche e Tecniche FAST di Milano, allora presieduta da Luigi Morandi, organizzò alla Fiera di Milano una grande conferenza internazionale i cui atti (L’uomo e l’ambiente: una inchiesta internazionale, Milano, Tamburini, 1971), purtroppo ormai una rarità bibliografica, conteneva un inventario delle forme di violenza contro l’ambiente.
La prima "giornata della Terra" stimolò un gran numero di persone --- giornalisti e studenti, professori e comuni cittadini --- a pensare, a leggere, a scrivere, a parlare di ecologia. Alcuni si permisero addirittura di spiegare quanto fosse poco attendibile il mitico “Prodotto interno lordo” come indicatore del benessere e dello sviluppo umano. In quella "giornata della Terra" di 45 anni fa sui muri delle città americane apparve un manifesto con una vignetta in cui Pogo, un opossum umanizzato, noto personaggio dei fumetti, guardava un ecologista che gettava per terra un foglio di carta straccia, e Pogo si chinava a raccoglierlo mormorando sconsolato: «Ho scoperto il nemico e il nemico siamo noi».
Anche oggi quante volte si vedono delle degnissime persone, eminenti nella loro professione, che si dichiarano fedeli amici dell'ecologia, ma poi fanno a gara per sfrecciare su ingombranti SUV e per costruire suntuose ville nei boschi, dopo aver tagliato gli alberi, o sulla riva del mare, dopo aver spianato le preziose dune. Ben presto la carica innovativa e “sovversiva” dell’ecologia si spense; il potere economico e finanziario spiegò bene che quelle dei guasti ambientali erano esagerazioni di frustrati pessimisti, che occorreva più energia a basso prezzo, che occorreva produrre e consumare più automobili, più merci, più plastica, diffuse l’illusione che la tecnica avrebbe risolto tutto.
Oggi, a quasi mezzo secolo di distanza, la popolazione mondiale ha superato i 7000 milioni di persone, tre miliardi di nuovi consumatori in Asia e nell’America latina si affiancano ai due miliardi di abitanti dei paesi già industrializzati affannandosi a bruciare carbone e petrolio, a produrre macchine e merci, a immettere nell’atmosfera gas nocivi e che alterano il clima, a gettare nelle discariche e negli inceneritori, miliardi di tonnellate all’anno di rifiuti, oltre centocinquanta milioni di tonnellate ogni anno solo in Italia; residui di plastica galleggiano addirittura sugli oceani. In Italia grandi città costiere gettano tranquillamente le acque di fogna non trattate nel mare e nei fiumi; la fame di spazio e il rapido crescente ”consumo di suolo” per edifici, quartieri urbani, autostrade e veloci ferrovie, centri turistici, rende più fragili le colline e le coste, fa aumentare frane e alluvioni.
Se veramente amassimo “la Terra” forse bisognerebbe fermarsi e guardarsi intorno, recuperare la voglia di un nuovo, più giusto, rapporto degli esseri umani con le risorse naturali, con i beni della Terra. E magari rimettersi a studiare un po’ di buona ecologia, quella vera. Forse, come diceva Pogo, davvero il nemico siamo noi.