Il manifesto, 10 luglio 2015 (m.p.r.)
Dopo il voto di fiducia dei 159 senatori di giovedì 25 giugno, oggi abbiamo vissuto ancora un altro Black Thursday della nostra storia repubblicana: alla Camera, 277 deputati hanno votato a favore della riforma della scuola proposta dal governo, trasformandola in legge.È davvero sorprendente che il premier, perplesso circa il fatto che in Grecia «3 milioni di cittadini abbiano espresso una decisione che riguarda 300 milioni di europei», non si preoccupi del fatto che poche centinaia di parlamentari italiani — nominati con una legge elettorale incostituzionale — hanno emanato una riforma che riguarda non solo milioni di studenti ma il destino del nostro sciagurato Paese.
È una riforma che fa strame dei principi costituzionali e declassa definitivamente la scuola pubblica italiana da istituzione a servizio. A nulla è valsa la mobilitazione costante di insegnanti e studenti che, nell’ultimo anno, fin dalle prime slide mostrate da Renzi in tv a settembre, hanno espresso ogni giorno e in ogni occasione il loro argomentato e articolato dissenso critico. Che hanno cercato, invano, un’interlocuzione reale con il governo, il parlamento e tutte le più alte cariche dello Stato per denunciare i rischi della deriva culturale e politica di una riforma della scuola che consegna tutti i poteri in mano ai presidi: dalla definizione del progetto formativo con vincolo triennale, alla ricerca dei finanziamenti privati sul mercato, fino alla chiamata diretta dei docenti.
Una riforma che lede uno dei princìpi fondamentali di uno stato democratico e civile: la libertà della scienza, delle arti e del loro insegnamento, ovvero la libertà del pensiero, la libertà attraverso la quale, nel percorso di istruzione e formazione intrapreso tra i banchi di scuola, i nostri studenti diventano, gratuitamente e a buon diritto, consapevoli cittadini del mondo. Come recitano gli articoli 3, 33 e 34 della Costituzione, nel definire in modo chiaro e inequivocabile il mandato della scuola nel nostro Paese.
Da settembre non sarà più così. Se il Presidente della Repubblica firmerà questa legge, sordo ai rilievi di incostituzionalità formali e sostanziali che da tante parti si levano in questi giorni tristi, in cui la tenuta della democrazia sta vacillando sotto i colpi degli emendamenti soppressi, dei pareri delle opposizioni inascoltati, delle posizioni legittimamente espresse da sindacati, associazioni e movimenti protervamente calpestate, dello spettacolo indecente dei parlamentari intenti a compulsare tablet e cellulari mentre approvavano distrattamente questo o quell’articolo del ddl — se anche il Presidente, garante supremo dei principi costituzionali, non comprenderà i gravi pericoli di cui questa riforma è impregnata e non imporrà una profonda riflessione, allora da settembre ci sarà il Far West.
E non perché noi insegnanti la saboteremo o boicotteremo, peraltro legittimamente ove sarà necessario preservare i diritti degli studenti e dei lavoratori dal mercimonio degli interessi privati. Ma perché le scuole imploderanno in una condizione di contenzioso e conflitto perenne. Una condizione che ne determinerà la paralisi. Ogni decisione del dirigente scolastico sarà discrezionale e irricevibile dai collegi dei docenti, consigli di classe, rappresentanze sindacali, consigli d’istituto e da tutti gli organi collegiali che saranno stati in grado di mantenere intatte le prerogative decisionali. Da settembre, ogni preside potrà pescare dal gran calderone della legge (un unico articolo con 212 commi e 8 deleghe, irresponsabilmente lasciata in questa forma flessibile e largamente interpretabile) tutto e il contrario di tutto, per una scuola on demand che corrisponda ai bisogni del territorio ma soprattutto alle esigenze del mercato.
Sarà il caos. Hanno fatto un disastro e lo chiameranno «buona scuola».