loader
menu
© 2024 Eddyburg
Rossana Rossanda
Guerre, il bilancio del nostro grande alleato
14 Febbraio 2007
Articoli del 2006
È ora di fare un po’ di conti sulla politica del nostro alleato, visto che ci sta isolando da tre quarti del mondo. Da il manifesto del 16 giugno 2006

Il ritiro italiano dall'Iraq era stato promesso da Prodi ed era la logica conseguenza del giudizio dato sulla guerra di Bush: una guerra sbagliata. Che il ritiro fosse condizionato a tempi tecnici - manifestamente non solo l'allestimento dei camion o degli aerei - era per non somigliare a Zapatero; piccola viltà ma pazienza. Senonché il tempo passa e i «tempi tecnici» si prolungano, col governo iracheno, con gli umori della coalizione e con quelli di Bush. Non irritare Bush, invocano Prodi e D'Alema. Andarsene ma piano e in punta di piedi. Per ora la brigata Sassari è stata sostituita dalla Garibaldi a ranghi ridotti. Il resto si vedrà dopo, in agosto o a ottobre o entro la fine dell'anno. Ma anche Berlusconi prevedeva di andarsene entro l'anno. E, un giorno sì e un altro no, un ritiro lo ventila lo stesso Bush. L'ideale del nostro governo sembra, diciamo la verità, poter andarsene con la sua benedizione, invece che con l'iraconda battuta di Donald Rumsfeld: «E se ne vadano, non cambia niente». Infatti, non siamo mai stati decisivi militarmente, ma qualcuno dei nostri militari ci ha lasciato la vita. E decisivi eravamo per coprire l'unilateralismo degli Usa. Questo è stato grave, e a questo ci si aspetta che il nuovo governo metta fine in modo netto.

Invece non avviene. Anzi ci si appresta a rafforzare la nostra presenza in Afghanistan, con la scusa che quella operazione - che pareva liquidata in quattro e quattr'otto - era avallata anche dall'Onu. Ma sono passati cinque anni dall'arrivo a Kabul e tre da quello a Baghdad, e non vogliamo verificarne i risultati?

In Afghanistan non si è trovato Osama Bin Laden. I suoi santuari sono altrove, probabilmente in Pakistan, alleato così caro agli Stati uniti che gli permettono persino l'atomica. A Kabul è insediato Karzai, dubbia e cedevole figura, per cui sono rispuntati i signori della guerra e sotto la corruzione imperante rifioriscono i talebani, che al sud del paese si muovono come a casa loro. Gli scontri sono sempre più accesi. In Iraq non si sono trovate le armi di sterminio. Nessuna pacificazione è in atto. Il governo non è in grado di controllare nulla, tanto meno le guerriglie fondamentaliste, dovute anche alla scelta della coalizione tutta in favore di Al Sistani. Come in Afghanistan, gli Usa avevano alimentato i talebani per liberarsi dell'Urss, e in Iraq foraggiato la guerra di Saddam Hussein contro l'Iran, per liberarsi di Saddam hanno appoggiato gli sciiti - anzi, una parte di essi. Difficile immaginare scelte di più breve respiro. Risultato, in Iraq sciiti e sunniti, ma anche gli sciiti fra di loro, si fanno a pezzi. In comune hanno solo l'odio per la coalizione che li ha invasi. Muoiono più marines oggi che in tempi di guerra dichiarata, e quanto ai morti iracheni, nessuno li ha mai contati.

Non basta. La razzìa a Bagdad avrebbe dovuto portare a un appeasement fra Israele e Palestina, che è più che mai in alto mare - anche il popolo palestinese, fino a quaranta anni fa il più laico e moderno della regione, sotto l'occupazione ha prodotto i suoi kamikaze e ha finito con il votare per Hamas, sola organizzazione che lo abbia aiutato quando le rappresaglie israeliane hanno demolito ogni infrastruttura dell'Anp. Ma Washington non impara mai nulla. Si azzarda ad aprire il capitolo Iran, che è nazione tutta diversa, mentre sotto i nostri occhi diventa una repubblica islamica la Somalia, altro territorio di interventi a vanvera lasciandovi poi solo desolazione e odio.

Il mondo se ne rende conto. Mai è stato così basso il prestigio degli Stati uniti, ha constatato il sondaggio dell'americana Pez. Mai è stata così bassa la popolarità di Bush. Un dubbio comincia a traversare quell'immenso paese, pronto a perdonargli le morti altrui ma non quelle dei propri figli, che anch'essi tornano nelle bare con la bandiera a stelle e strisce sopra.

E le istituzioni e l'intellettualità si preoccupano ormai della guerra infinita e delle sue molte derive - dai danni collaterali alle crudeltà di truppe spaventate ed esasperate, da Abu Graib a Guantanamo, dal Patriot Act al rinserrarsi del controllo poliziesco sulla loro propria società.

Il nostro nuovo governo non se ne rende conto? Non trova opportuno valutare la nostra politica estera in un quadro che non è più quello del 2001 né del 2003, nel quale si sono moltiplicati i disastri, l'Europa si è distinta per inerzia e ora è in panne, e nessun pericolo appare sventato? Il nostro primo problema non è: non irritare Bush, è: a quale America, a quali Stati uniti parliamo? Ragionevolezza vuole che non si cerchino scontri acuti. Ma ammonisce anche che l'alternativa non è fra l'ubbidienza e lo scontro - i «no» di Zapatero non hanno portato a uno sbarco dei marines a Malaga, né quelli di Chirac all'attacco di Brest. Un poco freddi, i rapporti diplomatici continuano. Un conto è dover incontrare Condolezza Rice, un conto è quel che le si va a dire, altro è tessere un dialogo per domani, delineandone i temi fin da oggi.

Non pare che sia, finora, la scelta né di Prodi né di D'Alema. Ma neanche la sinistra del centrosinistra vi sembra molto interessata: la discussione si limita al ritiro dall'Iraq, affrontando di passaggio il rinnovo della missione in Afghanistan - con relative ripicche fra Rifondazione e Comunisti italiani. E lo stucchevole ricatto: si può o non si può far cadere il governo per Kabul?

Come Washington ha dovuto prendere atto che l'Europa non è tutta vassalla, che nessuna alleanza giustifica l'unilateralismo, che è meglio non tirare la corda, lo stesso avverrebbe nel centrosinistra se il Premier e il Ministro degli esteri -che fino a prova contraria non sono né Bush né Rumsfeld - fossero indotti dalle Camere ad andare fino in fondo nel merito alle Camere. Che io sappia, il nuovo parlamento un bilancio ragionato dal 2001 ad oggi non l'ha fatto.

Eppure si dice che dall'11 settembre nulla è come prima. No, nulla è come prima. Ma neanche come si poteva pensare un mese dopo. È da un pezzo che sulla politica degli Usa e di Blair è arrivato il momento di verità. E d'obbligo guardarlo in faccia.

ARTICOLI CORRELATI
15 Febbraio 2007
14 Febbraio 2007

© 2024 Eddyburg