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Massimo Bordignon
Grecia: il paradosso, la paura e la speranza
27 Gennaio 2015
Articoli del 2015
«Tutti sanno che non si sta discutendo affatto della Grecia, e che un allentamento dei programmi di risanamento per questo paese si porterebbe inevitabilmente dietro una revisione delle politiche per tutta l’area. Ma gli ostacoli politici non mancano, perché significherebbe rimettere in discussione i capisaldi del

fiscal compact». Lavoce.info, 26 gennaio 1014 (m.p.r.)

Chi ha "votato" per Syriza. E cho no

Certo, grazie all’euro, il mondo è diventato un posto ben singolare. Un partito di sinistra estrema prende il potere in Grecia, e di fatto la sua vittoria viene salutata positivamente da vari ambienti finanziari e accademici main stream, oltre che da governi e partiti politici europei che più lontani di così sul piano ideologico da Alexis Tsipras non potrebbero essere. Perfino il Financial Times – un giornale non esattamente noto per le sue posizioni filo-marxiste – ha di fatto caldeggiato la vittoria di Syriza, così come un serissimo economista dell’università di Oxford, per non dire di Thomas Piketty che ha affermato: «Syriza vuole costruire un’Europa democratica, che è proprio quello di cui tutti abbiamo bisogno».

Specularmente, alla faccia del riserbo e della correttezza istituzionale che dovrebbe caratterizzarne l’azione, il primo a esprimersi ufficialmente in merito ai risultati dell’elezioni greche non è stato un politico, ma il governatore della Bundesbank, Jens Weidmann, ovviamente solo per dire che le elezioni greche non cambiano nulla e che pacta sunt servanda da qualsiasi governo. Un altro elemento paradossale è che tutto ciò c’entra relativamente poco con la Grecia e anche con la questione della fondatezza o meno della richiesta di Syriza di ristrutturare il debito. Su questo punto, e sul come eventualmente realizzarlo sotto il profilo tecnico, le opinioni divergono ancora.
La spiegazione è un’altra. La verità è che a parte un gruppo di inossidabili (ma assai influenti in patria) economisti ordo-liberali tedeschi, la stragrande maggioranza degli accademici e degli ambienti economici internazionali, compresi i principali governi dei paesi occidentali non appartenenti all’euro, si sono oramai convinti che così com’è l’Unione monetaria europea non va da nessuna parte, salvo che verso l’abisso.

La filosofia dell’austerity si è tradotta in politiche fiscali pro-cicliche (cioè eccessivamente restrittive) in un momento in cui ci sarebbe bisogno di tutt’altro, come non si stanca di ripetere Mario Draghi. È un’Unione monetaria sempre sull’orlo della deflazione e della recessione, che in due anni (2013-2014) ha buttato via circa il 10 per cento del suo Pil aggregato e lasciato a casa molti milioni di lavoratori in più di quanti “necessari” a mantenere il tasso di inflazione al 2 per cento (oggi siamo allo 0,3 per cento). Oltretutto, un’Unione monetaria sempre a rischio di dissolversi al suo interno, con impatti devastanti sul resto del mondo, non conviene a nessuno. La piccola Grecia, con tutti i suoi problemi e anche le sue responsabilità, è diventata dunque il simbolo di una modifica possibile nella conduzione della politica economica europea.

Le difficoltà di un compromesso possibile

Ma proprio questo è il problema. Ci sono ovvie ragioni economiche e di buon senso per trovare un accordo tra le richieste del nuovo governo greco, la Troika - cioè la Commissione europea, la Bce e il Fondo monetario - e il resto dei paesi europei. Del resto, da quello che si capisce dal programma di Syriza, le sue proposte non sono poi molto dissimili da quelle che erano già state considerate da funzionari dell’area euro nel 2012 e che sono più volte riemerse nella discussione successiva, cioè la cancellazione di parte del debito e un allungamento delle scadenze per il residuo (una sorta di piano Brady). Non sappiamo quanto sia chiaro a qualche plaudente o preoccupato politico di casa nostra, ma Tsipras non pretende (o almeno non pretende più e non pretende ora) un default totale della Grecia sul debito con soggetti esteri, quindi tutto a carico degli altri paesi europei. Default che sarebbe invece l’ovvia conseguenza di una eventuale (ma non desiderata da Syriza) uscita o “espulsione” della Grecia dall’euro (ammesso e non concesso che una espulsione sia possibile).

Di fatto, nessuno capisce davvero come la Grecia, anche con interessi artificialmente bassi e scadenze allungate, potrà mai restituire un debito che viaggia attorno al 180 per cento del Pil. Ma il punto è che tutti sanno che non si sta discutendo affatto della Grecia, e che un allentamento dei programmi di risanamento per questo paese si porterebbe inevitabilmente dietro una revisione delle politiche per tutta l’area, rimettendo in discussione i capisaldi del fiscal compact europeo e di conseguenza rilanciando l’idea di una politica espansiva, coordinata a livello europeo, che vada oltre il fumoso piano Juncker e i piccoli passi in merito alla flessibilità introdotti dalla Commissione europea.

Sul piano politico, questa revisione toglierebbe il fiato ai vari movimenti anti-euro nei paesi del Sud d’Europa, ma ne amplificherebbe i toni nel Nord e soprattutto in Germania, una cosa che non è chiaro se Angela Merkel può permettersi, dopo aver già dovuto ingoiare il Quantitative easing della Bce e dovendo fronteggiare i possibili veti della Corte costituzionale tedesca. Dunque, la partita è aperta e non è affatto detto che un compromesso, per quanto ragionevole sarebbe sperarlo, alla fine si trovi.
Resta il rammarico che tutto questa complessa battaglia politica ed economica avvenga sulle spalle di un paese che ha già pagato duramente per il sostegno dell’ortodossia economica europea.

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