IL REGOLAMENTO DEL PIÙ FORTE
di Andrea Fabozzi
Costituzione. Emendamenti abbattuti a pacchi, voti segreti pericolosi per il governo scansati senza scrupolo. Il presidente Grasso garante della riforma di Renzi. In poche ore la guida del senato è passato da bestia nera del governo a strumento per la marcia trionfale dell’esecutivo
La tracimazione dei senatori dal gruppo di Forza Italia a quello ormai stabilmente in maggioranza di Verdini, il negoziato con la minoranza Pd che ha ridotto il dissenso interno da una trentina di senatori a due o tre sono cose che certamente aiutano. Ma probabilmente non sarebbero bastate al governo per far approvare la legge di revisione costituzionale entro il 13 ottobre, data sulla quale Renzi non transige. Ci voleva una grossa mano da parte del presidente del senato, quel Pietro Grasso con il quale nell’ultimo mese il presidente del Consiglio ha più volte cercato lo scontro istituzionale, lanciando avvertimenti e ultimatum. Evidentemente andati a segno, perché quella mano è arrivata. Anche più generosa del passato. Grasso ha consentito qualsiasi strappo al regolamento e ha seguito passo dopo passo il percorso tracciato dai tecnici di palazzo Chigi e di palazzo Madama per aggirare gli ostacoli alzati dalle opposizioni contro un governo che non accetta modifiche alla «sua» riforma costituzionale. Ieri sera, prima dell’ultima interpretazione del regolamento utile ad allontanare pericolose votazioni segrete dal cammino dell’articolo 2, il presidente del senato non si è fatto scrupolo di riunirsi a palazzo Madama con la ministra Boschi per studiare assieme le strategie d’aula.
E così la riscrittura di oltre un terzo della Costituzione procede spedita. Ieri è stato approvato l’articolo 1 che stabilisce la funzioni del senato, grazie alla riscoperta della tecnica dell’emendamento «killer». Grasso lo aveva già consentito all’inizio dell’anno sulla legge elettorale, allora reggeva ancora il «patto del Nazareno» e l’emendamento Esposito servì a piegare la minoranza Pd. Ieri l’emendamento Cociancich ha scansato il rischio di votazioni segrete. Il prodotto finale è un lungo testo di 30 righe in gran parte mai discusso né in aula né in commissione, e mai neanche difeso dalla maggioranza cui interessava solo votarlo prima di tutti gli altri emendamenti. Sarà il nuovo articolo 55 della Costituzione italiana che oggi è quello scritto da Costantino Mortati in due commi e cinque righe in tutto.
Così sono stati abbattuti emendamenti a pacchi e la tensione in aula ha continuato a salire per tutta la giornata, tra le polemiche per il sostegno dei «transfughi» e gli attacchi dei 5 Stelle al presidente. Che, impassibile, ha continuato a rispondere di no a ogni richiesta delle opposizione. La riforma della Costituzione ha preso così le forme già viste di un assedio della minoranza al fortino (sempre più largo) della maggioranza, tanto rumoroso quanto vano. Impossibile ogni discussione nel merito di modifiche importantissime, ma la responsabilità va divisa tra l’esecutivo che ha escluso ogni apertura reale e la guida dell’assemblea che ha dimostrato di saper tutelare solo gli interessi del governo. Introducendo, come se non bastasse, precedenti assai pericolosi. Sia il voto sull’emendamento Cociancich che quello sul complesso dell’articolo 1 hanno testimoniato il buon lavoro fatto da Verdini e dal sottosegretario Lotti: il governo è rimasto sempre sopra la soglia della maggioranza assoluta. E non è esatto dire che i voti degli ultimi arrivati sono solo «aggiuntivi», come si consola la minoranza Pd ricondotta all’ordine, visto che nel successivo passaggio servirà proprio la maggioranza assoluta per lanciare la riforma verso il referendum confermativo. Non ha torto Sel quando, anticipando uno slogan referendario, attacca «la Costituzione di Renzi e Verdini».
Anche perché non è affatto finita, nella prossima settimana dovranno arrivare altre forzature. Già ieri sera Grasso ha trovato il modo di affossare cinque voti segreti che aveva precedentemente dichiarato di voler accogliere. Sull’articolo 2 è ormai noto che la presidenza ha ammesso solo emendamenti al comma 5, ma tanto la senatrice De Petris di Sel quanto il leghista Candiani avevano trovato il modo di infilare in quel punto il ritorno all’elezione diretta dei senatori e anche il voto segreto. Gli emendamenti diventavano così assai pericolosi per la tenuta del governo. Ma Grasso si è messo di traverso con un’interpretazione ancora una volta spericolata del regolamento. Oggi si vota sull’articolo 2.
Il presidente del Consiglio può dunque far trapelare la sua grande tranquillità. Ma nel Pd manca ancora l’accordo su due punti: l’elezione del presidente della Repubblica e la norma transitoria (articolo 39) che affida ancora ai consiglieri regionali la scelta esclusiva dei senatori (con buona pace del recupero della «volontà dei cittadini»). Sul primo punto si è parlato di un possibile nuovo emendamento killer, sempre di Cociancich, ma la proposta in realtà è assai più impegnativa e introdurrebbe un sistema di candidature ufficiali per il Quirinale. Il governo è stato costretto a dissociarsi.
«Questa è la riforma della Costituzione Renzi-Verdini»: Peppe De Cristofaro, Sel, rigira il coltello nell’unica ferita che deturpa la vittoria piena del premier. Non è finita. Ci saranno altri momenti incandescenti, nuovi passaggi a rischio. Il più pericoloso sarà sull’articolo 21: materia del contendere le modalità di elezione del capo dello Stato. Ma si può scommettere che si ripeterà la sceneggiata degli ultimi due giorni. Roberto Cociancich, il presidente degli scout cattolici che come hobby falcidia voti segreti, ha già presentato l’apposito «canguro». Renzi la spunterà ancora su tutti i fronti.
I voti a favore sono stati sempre tra i 171 e 172, esattamente come previsto dall’ex berlusconiano conquistato da Verdini Vincenzo D’Anna. Non sono pochi: sorpassano di una decina e passa la maggioranza assoluta e offrono la prova provata che la riforma sarebbe passata anche senza la resa della minoranza Pd. Però gli esperti scommettono che al momento del voto finale i sì saranno molti di più, secondo qualcuno arriveranno addirittura a sfiorare i 190. Un po’ perché non ci saranno le assenze degli ultimi giorni, un po’ perché l’arrembaggio al carro del vincitore, anzi al taxi guidato da Verdini che verso quel carro traghetta i profughi della destra, è in pieno svolgimento.
I dissensi nel Pd non sono andati oltre quei tre voti ampiamente preventivati: Felice Casson, Corradino Mineo e Walter Tocci. Nell’Ncd, nonostante gli sfracelli minacciati, nemmeno quelli. Nessun voto contrario, tutt’al più qualche assenza strategica destinata probabilmente a rientrare nel voto finale.
Ciliegina prelibata sulla torta di don Matteo, la resa incondizionata e totale del presidente del Senato. Arrivato alla stretta decisiva, con le debite pressioni esercitate sino all’ultimo secondo dalla ministra Boschi, Piero Grasso ha abbandonato ogni resistenza, senza curarsi più neppure di salvare le apparenze, e ha lasciato mani totalmente libere alla maggioranza e al governo. Cociancich, l’uomo-canguro, giura di essersi scritto da solo gli emendamenti killer, ma in aula sia Loredana De Petris, Sel, che Maurizio Gasparri, Forza Italia, hanno detto apertamente quello che tutti i senatori si ripetevano nei corridoi, cioè che dietro non quegli emendamenti ma dietro l’intera strategia della maggioranza in aula ci sono direttamente i funzionari del Senato. E se la vox populi, come spesso capita, ci piglia, il fatto non sarebbe certo possibile senza l’assenso del presidente di palazzo Madama.
Resta appunto solo una ferita aperta: il ruolo determinante di Denis Verdini e della sua truppa mercenaria. Certo, il voto sulla riforma non comporta l’appartenenza a una maggioranza, però quando ieri il capogruppo Barani ha annunciato il voto a favore confermando tuttavia che «noi restiamo all’opposizione», gli ex compagni azzurri si sono scatenati in una gara di fischi, i leghisti hanno sventolato banconote, i pentastellati hanno rumorosamente segnalato al Pd, minoranza inclusa, quali sono i nuovi compagni di strada. Ma gli stessi senatori di Renzi, pur sforzandosi di restare seri, sapevano perfettamente che si trattava di una barzelletta.
Certo, il voto di Verdini non è stato sinora e non sarà in futuro determinante. Però senza quei voti, senza la garanzia che la riforma sarebbe stata comunque approvata grazie agli ascari del fiorentino, la rotta della minoranza Pd non ci sarebbe stata, o almeno sarebbe stata meno totale e sgangherata. La cambiale arriverà inesorabilmente a scadenza, e si sommerà alla necessità di offrire una zattera ai naufraghi dell’Ncd. In Parlamento quei rinforzi sono preziosi, fuori dal palazzo potrebbero rivelarsi esiziali. Secondo un già celebre sondaggio della Ghisleri, che ieri a palazzo Madama era sulla bocca di tutti, l’alleanza con Verdini e Alfano costerebbe al Pd addirittura il 7% dei consensi, facendolo precipitare al 25%. Certo, quel sondaggio è in qualche misura drogato. Parla di «partito della nazione», mette Renzi e Verdini quasi sullo stesso piano. I risultati, di conseguenza sono probabilmente esagerati. Ma, anche se in dimensioni meno rovinose, il patto col diavolo che il premier ha scelto di firmare per garantirsi la vittoria rischia comunque di costare parecchio in termini di voti.
Qualche prezzo dovrebbe pagarlo anche per aver modificato la Costituzione con i trucchi e i carri armati, a colpi di canguramenti più o meno super, di violazioni del regolamento consentite senza pudore da Piero Grasso, di aggiramenti sfacciati di ogni voto anche solo potenzialmente minaccioso. Ma con un sistema mediatico genuflesso o intimidito e con l’alibi incautamente offerto da Calderoli e dai suoi milioni e milioni di emendamenti, su quel fronte Renzi è certo di riuscire a evitare ogni ritorno d’immagine dannoso. Ma nascondere Verdini, Alfano e tutti gli altri, quello è un altro paio di maniche.
Quando fu presentato per l’Italicum il noto emendamento Esposito, fu chiaro che si poneva un precedente pericoloso, tale da poter stroncare non solo l’ostruzionismo, ma qualsiasi dibattito o confronto parlamentare. Riassumere un dettato normativo in un emendamento da anteporre e da votare prima degli altri ha infatti la conseguenza, secondo una lettura notarile dei regolamenti, di far cadere ogni altro emendamento perché l’Aula ha ormai deciso. Scrissi allora su queste pagine che il presidente avrebbe dovuto dichiarare l’emendamento Esposito inammissibile, per carenza di contenuto normativo. Fece diversamente.
Vicenda simile abbiamo ora con l’emendamento Cocianchic (1.203). Non importa chi l’abbia scritto. Calderoli ha riferito in Aula voci per cui Cociancich «avrebbe detto a più persone che ignorava il contenuto ovvero la portata del suo emendamento».
Non sappiamo se sia vero. Comunque, non ci voleva un genio del diritto parlamentare per infilarsi nel varco aperto allora dalla decisione del presidente del senato sull’emendamento Esposito. La cosa fu già grave con l’Italicum. È ancor più grave adesso, con una riforma della Costituzione di grande momento. E non si può ribadire abbastanza che il senso della Costituzione, ed in specie dell’art. 138, non è certo quello di favorire i trucchetti per stroncare il dibattito, e arrivare in qualunque modo alla decisione.
Dopo tanto esitare, il presidente Grasso è sceso in campo per il governo. Per la verità, qualche sospetto l’avevamo. Ne troviamo ora conferma nelle decisioni sull’ordine delle votazioni e sui subemendamenti.
Qual era il corretto ordine di votazione degli emendamenti? Secondo principio, gli emendamenti si votano a partire dal più lontano fino al più vicino al testo da emendare. In Aula, è stata contestata a Grasso la scelta di mettere in prima fila l’emendamento 1.203, e il presidente in realtà non ha risposto. Ancor più significativa la decisione di precludere ogni subemendamento al Cociancich. Va infatti considerato che gli emendamenti di maggioranza (quelli concordati in casa Pd) sono stati portati a conoscenza dei senatori all’ultimo momento. Molti sono andati in Aula senza nemmeno averli visti. Il presidente ha deciso che i termini per la presentazione di subemendamenti erano già scaduti. Forse vero, ma le condizioni reali del dibattito avrebbero certo suggerito, se non imposto, almeno una breve riapertura dei termini. Approvato il Cociancich, Grasso ha anche respinto il tentativo di subemendarlo attraverso l’art. 100, comma 5, reg. sen., norma raramente invocata, che però avrebbe potuto consentire una almeno parziale riapertura del confronto.
Il trucco c’è, e si vede. Con queste decisioni, l’approvazione del nuovo art. 55 della Costituzione si è sostanzialmente risolta nel voto sull’emendamento Cociancich, che ha precluso tutti gli altri, mentre veniva contestualmente impedito ai senatori di opposizione qualsiasi intervento in via di subemendamento. È stata così anche superata una raffica di voti segreti, rischiosi per il governo. All’accusa di avere consentito l’uso strumentale dell’emendamento 1.203 contro le opposizioni — avanzata da molti nella seduta di giovedì — Grasso ha reagito con stizza, ma senza porre argomenti. E nemmeno ha raccolto le ripetute e insistite richieste di riunire la Giunta per il regolamento. Non a caso. Come sappiamo, i numeri della Giunta non sono blindati per il governo, e il passaggio poteva rivelarsi pericoloso. Analoghe manovre si preannunciano per gli articoli successivi al primo. A quanto leggiamo, per i subemendamenti all’art. 2 il tempo concesso è mezz’ora.
Grasso protagonista, dunque. Avremmo pensato che il primo dovere di un presidente di assemblea fosse nei confronti dell’istituzione presieduta. Dobbiamo ricrederci. Possiamo forse capire l’atteggiamento tenuto verso gli 82 milioni di emendamenti Calderoli, per cui poteva valere l’argomento che non si può mai favorire la paralisi dell’istituzione. Ma questo era ieri. Oggi, vediamo Grasso schierato al fianco del governo. Erano possibili scelte diverse, e letture di regolamento secundum constitutionem, più attente alla necessità che una Costituzione nasca da un confronto reale, e non per il sostegno acritico di maggioranze occasionali e raccogliticce, popolate di anime morte e di voltagabbana.
Quanto accade ci conferma che la fu minoranza Pd ha sbagliato facendosi riassorbire nel gruppone, e sostanzialmente scomparendo nel gorgo della rottamazione costituzionale. Un pezzo del paese non accetta la Costituzione di Renzi, senza se e senza ma perché quella che abbiamo è di gran lunga migliore. Il senatore Cociancich ci comunica in una intervista di preferire la precisione e non la quantità come Calderoli. Rispetto ad entrambi, preferiamo l’intelligenza.