’”, a cura di Gian Luca Corradi, introduzione di Luciano Canfora edito da Tessere, Firenze». Ytali 13 aprile 2017 (c.m.c.)
Gramsci avrebbe potuto insegnare, e bene, quel giornalismo serio, informato di cose serie, che oggi sta diventando una rarità non solo in Italia.
Magari molte cose, nelle note sparse nei Quaderni (ma che Togliatti nella prima e purgata edizione, volle ordinare nel volume dedicato a "Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura"), sono superate: nella concezione e nella fattura di giornali, riviste, strumenti di comunicazione in genere. Nessuna sorpresa: basti pensare a quante cose, nel giornalismo, sono mutate ab illo; o a verificare, passato un secolo breve, che cosa oggi rappresenta, solo per fare un banale esempio, il web nel bene (la velocità dell’informazione) e talora nel male: la sintesi forzata, la superficialità, lo scoop. Eppure ci sono, in quelle note, molte, moltissime intuizioni straordinarie su come sarebbe diventato il giornalismo, e sulle condizioni per promuovere e realizzare un giornalismo attrezzato, intellettualmente onesto, e soprattutto libero.
Ma attenzione: neanche per Gramsci il giornalismo è una scienza infusa. La passione per la carta stampata nasce in lui, poco più che ventenne, come necessità politica di praticare il giornalismo perché egli ne comprende il valore unico, in un certo senso assoluto, come strumento di formazione, come arma prima di educazione e poi di propaganda. C’è una traccia fondamentale di quest’idea in un paio di storiche battute apparse su l’Avanti! già nel 1916: «Bisogna dire e ripetere che quel soldino buttato là distrattamente nella mano dello strillone è un proiettile consegnato al giornale borghese che lo scaglierà poi, al momento opportuno, contro la massa operaia. Se gli operai si persuadessero di questa elementarissima verità, imparerebbero a boicottare la stampa borghese con quella stessa compattezza e disciplina con cui la borghesia boicotta i giornali degli operai, cioè la stampa socialista (…) Boicottateli, boicottateli, boicottateli!».
Praticare il giornalismo ma soprattutto insegnarne le basi a chi non ha la minima idea di come si scrive un articolo, per creare così un collettivo, per far crescere appunto la stampa socialista. Prima la pratica e poi la teoria, sembra dirci Nino, stando ad un paio di sue lettere che scrive nel 1918 e nel 1924. La prima è diretta a Giuseppe Lombardo Radice, rivolta più al pedagogista che non al filosofo. Gramsci gli racconta dell’esperienza di un gruppo di giovani e giovanissimi socialisti, inseriti in un “Club di vita morale” di cui lui stesso fa da “exubitor”, che in latino fa sentinella, noi oggi diremmo che fa da tutor. Bene, da questo gruppo emerge Andrea Viglongo, un impiegato privato, 17 anni, studi tecnici inferiori, che ha scritto per Il Grido del Popolo la segnalazione di un saggio (chissà perché Gramsci lo definisce “opuscolo”) dello stesso Lombardo Radice su Il concetto dell’educazione. Che gliene pare? chiede Gramsci sollecitando qualche consiglio, «un indirizzo che integri e completi i miei propositi». Non si ha traccia della risposta, ma non è questo l’importante, come vedremo tra un momento.
Sei anni più tardi sarà Gramsci a impartire da Vienna una severa ma in fondo anche bonaria lezione a Vincenzo Bianco per un articolo destinato ad esser pubblicato ma non sappiamo su quale giornale. (Per inciso, emigrato in Francia e in Belgio con l’avvento del fascismo, Bianco fu poi un coraggioso garibaldino in Spagna; rappresentò ufficialmente il Pcd’I nella Terza Internazionale, e che come tale firmò lo scioglimento del Comintern nel 1943, a nome del Pci. Ebbe poi discutibili, e anzi assai discussi, rapporti con Tito per la questione di Trieste: lui era favorevole all’annessione della città alla Jugoslavia. Fu infine sospeso da ogni incarico di partito e finì i suoi giorni all’archivio dell’Unità come traduttore di Pravda e Izvestia.) Più giovane di Gramsci di una decina d’anni, Nino gli scrive che avrebbe preferito, agli articoli un po’ sbilenchi, “il lavoro pratico” tra gli emigrati; poi gli promette una lettera-lezione per correggere “gli errori che commetti, di stile e di grammatica”, anche se è “già gran cosa” sapere esporre con grande chiarezza “i tuoi concetti”. Ma bisogna mettere ordine in questi concetti.
E allora Nino, con pazienza, gli spiega: fare prima uno “schema”, poi «disporre in ordine (…) tutte le cose che vuoi dire» indi svilupparle. Per abituarlo a questo lavoro Gramsci gli consiglia di “fare esercizi” per iscritto (“in modo per abituarti a una forma tua, precisa e personale”), su scritti degli altri, “per esempio sul Manifesto dei Comunisti, capolavoro di chiarezza, di semplicità e di dialettica”. E gli ricorda che Antonio Labriola aveva letto più di cento volte il Manifesto, ogni volta comprendendo qualcosa che prima non aveva capito. «Se anche tu» imitassi il grande marxista napoletano «ciò non sarà inutile». E improvvisamente ritorna, in questa lettera a Bianco, il nome di Viglongo: gli aveva dato consigli analoghi, e gli aveva fatto fare lavori simili. «Prima scriveva articoli di 6, 7, 8 colonne che io cestinavo», racconta Gramsci: «Glieli facevo rifare sino a tre, quattro volte sino a quando non erano diventati di una colonne e mezzo al massimo (…) E Viglongo, che prima era un pasticcione di tre cotte, finì per scrivere abbastanza bene, tanto che poi immaginò di essere diventato un grand’uomo e si allontanò da noi». Quindi “non più” lezioni ai giovanotti del suo tipo, «lo farò solo con gli operai, che non aspirano a diventare grandi giornalisti della borghesia».
Passione per la carta stampata? Sì, ma unita ad una conoscenza e intelligenza strabilianti per le tecniche di stampa e, paradossalmente, persino per risparmiare sull’acquisto della carta. C’è una lettera illuminante, scritta da Vienna nel gennaio del 1924 e diretta a quel Ruggero Grieco che diventerà anni dopo – con la famigerata missiva che in pratica lo individua come il capo dei comunisti – la sua maggiore e distruttiva ossessione in carcere. Nella lettera Nino dà alcuni suggerimenti pratici alle viste della stampa a Roma del torinese “Ordine Nuovo”. Intanto trovare un tipografo che abbia una macchina piana capace di contenere il foglio del quindicinale: «Non mi pare difficile». Poi trovare un mercante di carta che, come accade a Torino (“e a Roma esistono una quindicina di giornali…”), acquisti dalle grandi tipografie “tutti i residui di carta”, “gli avanzi dei rotoli”, per cavarne «una carta bianca e abbastanza consistente» che possa servire per l’Ordine e, soprattutto, per conservarne il formato: «So quanto queste piccole cose abbiano una grande importanza pratica nella diffusione». Ma attenzione, e qui balza con tutta evidenza l’intelligenza critica di Nino Gramsci, perché «da una diversa soluzione del formato dipende anche una diversa impostazione redazionale». Sembra di sentire Albe Steiner, ma a quell’epoca il grande innovatore della grafica politica era appena un ragazzino…
Questo passaggio su soluzione del formato e impostazione redazionale è, credo, doppiamente importante. Intanto perché è uno dei primi e più efficaci esempi delle intuizioni che Antonio Gramsci svilupperà a lungo, saltuariamente, e anche nelle più disparate occasioni, negli anni terribili della galera quando dovrà limitarsi a studiare, del giornalismo, quelli che lui stesso definirà i «fini metodologici e didattici». E poi perché, un passo dopo l’altro delle sue riflessioni sul giornalismo, Gramsci giungerà ad alcuni punti fermi, tuttora validi, tuttora cogenti. Anzitutto un dovere dell’attività giornalistica: «Seguire e controllare tutti i movimenti e i centri intellettuali che esistono e si formano nel paese». E poi ripete: «Tutti.» E subito fa un esempio illuminante: «Il cattolicismo è un grande centro e un grande movimento». Seguire e controllare tutto, ma bandendo «le cattive tradizioni della media cultura italiana: l’improvvisazione, il ‘talentismo’, la pigrizia fatalistica, il dilettantismo scervellato, la mancanza di disciplina intellettuale⋄.
A proposito di formati e di design. Nino si era fatto mandare in carcere il primo numero della rivista Leonardo edita da Sansoni e l’aveva paragonato ai numeri della stessa rivista èditi in precedenza da casa Treves. E nota subito la differenza a tutto favore della Sansoni, e ne scrive a lungo. Intanto a proposito della veste esteriore che ha grande importanza sia commercialmente che per fidelizzare il lettore, e ciò vale, a suo giusto avviso, non solo per le riviste ma anche per i quotidiani – e lui, in cella, ne ottiene tra al mattino e due al pomeriggio.
Qui, a proposito della veste, elenca minuziosamente, con una precisione tecnica non tanto da giornalista quanto da proto (che è, o almeno era, il “re” in tipografia) le caratteristiche di una pagina-tipo “composta dai margini, dagli intercolunni, dall’ampiezza delle colonne (lunghezza della linea), dalla compattezza della colonna cioè dal numero della lettere per linea e dall’occhio di ogni lettera, dalla carta e dall’inchiostro: bellezza dei titoli, nitidezza del carattere dovuto al maggiore o minore logorio delle matrici o delle lettere a mano ecc.” Anche da queste minuzie si può trarre una morale. Per esempio sulla “resa” politica della stampa. Si chiede Gramsci: “Come potrebbe essere ritenuto capace di amministrare il potere di Stato un partito che non ha o non sa scegliere (il che è lo stesso) gli elementi per amministrare bene un giornale o una rivista? Viceversa, un gruppo che con mezzi scarsi sa ottenere giornalisticamente risultati apprezzabili, dimostra con ciò, o già con ciò, che saprà amministrare bene anche organismi più ampi”. Ogni pronostico su future vicende editoriali di partito è ovviamente del tutto casuale: giusto attribuire meriti e doti grandi a Gramsci ma non quella di indovino (e comunque ci aveva azzeccato).
Il che non gl’impediva di prevedere o anticipare quali strade avrebbe preso il giornalismo in un domani, prossimo o lontano che fosse, o almeno quella parte dell’editoria più avvertita, che avrebbe sentito il polso del lettore e colto i segni di esigenze più avanzate. […]
Lettore famelico, onnivoro, persino compulsivo, Gramsci trova sulla Nuova Antologia (estate 1928, Nino è in carcere già da due anni) un articolo “interessante” di Ermanno Amicucci. Lo sa fascista, non sa che diventerà segretario del sindacato fascista dei giornalisti, e men che mai può sapere che sarà persino repubblichino, collaborazionista con i nazisti, condannato per questo a morte, pena poi commutata in trent’anni, e infine non solo amnistiato ma quasi subito libero di riprendere a fare il giornalista come se nulla fosse. Comunque Amicucci ha toccato un tasto – l’educazione al giornalismo – a cui, come si è visto, Gramsci è assai attento, nemico com’è dell’improvvisazione, del dilettantismo. E dunque egli fa suo, e lo definisce meglio, il principio che il giornalismo debba essere insegnato, che non sia razionale lasciare che il giornalista si formi da sé casualmente, attraverso la “praticaccia”.
Questo principio è vitale, e Gramsci prevede che “si andrà sempre più imponendo a mano a mano che il giornalismo, anche in Italia, diventerà un’industria più complessa e un organismo civile più responsabile”. Di più, Gramsci ha un’idea: che il problema della scuola professionale possa essere risolto nell’ambito della stessa redazione, trasformando o integrando le periodiche riunioni redazionali in scuole organiche di giornalismo, “con l’invito ad assistervi anche di elementi estranei alla redazione in senso stretto: vere scuole politico-giornalistiche”. Le scuole (quali buone, quali mediocri, quali pessime) ora esistono, ma completamente avulse dalle tradizionali riunioni di redazione. Un solo giornale ne trasmette via Internet una sorta di sceneggiata, magari utile a fini pubblicitari ma non certo scolastici. Gramsci è lontano.