Le ricette per uscire dalla crisi oscillano tra un liberismo light o un liberismo ancora più radicale di quello che ha prodotto il default di alcune economie nazionali . Un sentiero di lettura a partire dai saggi dello studioso inglese Rimedi omeopatici che costringono a pensare i rapporti sociali come una totalità da destrutturare La finanza è il nemico, mentre l'etica del lavoro, la comunità e il rigore sono l'ancora di salvezza del capitalismo
È stata più volte decretata la sua morte negli ultimi dieci anni. Il primo annuncio del suo decesso è stato dato dalle armate imperiali statunitensi con l'invasione dell'Afghanistan in risposta all'attacco delle Torri Gemelle. Poco importava se nelle operazioni militari afghane erano stati coinvolti molti volenterosi non americani. L'11 Settembre aveva sì reso evidente che la globalizzazione era la realtà in cui uomini e donne vivevano, ma l'ordine doveva essere riportato, ripristinando un tradizionale sistema di relazioni statali incardinato, va da sé, negli Stati Uniti. Poi è stata riportata in vita, quando quelle stesse armate, assolto il compito che si erano date, hanno puntato verso l'Iraq. In quell'occasione, la coalizione militare e politica non poteva che essere globale, perché ad essere minacciato era lo stile di vita occidentale divenuto egemone e appunto globale. Su un altro versante, la globalizzazione era valutata sia come espressione della marxiana tendenza cosmopolita del capitale che come possibilità di costruire un'alternativa al liberismo che ignorava le frontiere per fare profitti. Il peggio doveva però ancora venire. E quando la valanga dei titoli tossici ha investito il mondo, una delle prime vittime annunciate è stata sempre la globalizzazione.
In nome dello Stato
La globalizzazione non è però un fenomeno naturale. È l'esito di una trasformazione del mondo che non coinvolge solo l'attività economica, ma anche le relazioni sociali, come emerge dal ponderoso saggio dello studioso inglese Luke Martell Sociologia della globalizzazione (Einaudi, pp. 406, euro 26). A essere modificati, assieme al modo di produzione, sono la cultura, i media, le migrazioni. Una trasformazione irreversibile dai contorni tuttavia molto diversi da quelli tratteggiati dalla saggistica mainstream. Lo stato, infatti, non è scomparso. Semmai, è il suo ruolo ad essere stato modificato, diventando l'«interfaccia» tra la dimensione nazionale e quella globale. La cultura, cioè quell'aspetto del vivere sociale che rispecchia le relazioni sociali, presenta sia caratteristiche di omologazione che di forte differenziazione, elevando il pastiche a elemento costitutivo delle identità sociali. Infine, viene sconfessato il dogma in base al quale il libero mercato, meglio il capitalismo, non si può sviluppare in presenza di uno stato che interviene sia come fattore regolatore che in qualità di imprenditore nell'attività economica. Lo testimonia l'ascesa dei paesi del cosiddetto Bric, cioè il Brasile, l'India e soprattutto la Cina.
C'era dunque un elemento che destava il sospetto che l'annuncio del suo decesso fosse dubbio: a decretarne la morte erano quegli stessi organismi sovranazionali che l'avevano incensata fino a pochi mesi prima. E quando in una girandola di incontri dai nomi sempre più in codice - G7, G8, G22, G2 - è stato stabilito che l'annuncio della sua scomparsa era stato troppo prematuro, perché le soluzioni alla crisi non potevano che essere globali, la certezza che la globalizzazione fosse un «significante vuoto», come amava ripetere Slavoj Zizek, non è stata mai più contestata. Poteva cioè essere riempito di ogni concezione, visione del mondo, dei rapporti tra le classi, di fattori geopolitici, di sinuose e performative concezioni sulla presenza di una cultura omologata e omologante vigente tanto a Tokyo, quanto a Nairobi. La globalizzazione era cioè rappresentata come l'araba fenice, perché risorgeva sempre dalle sue ceneri. E tuttavia, si è fatto strada, nei think tank neoliberisti, un sentimento di imbarazzo, di pentimento che ha coinvolti studiosi, uomini politici spinti dall'urgenza di immolare la globalizzazione sull'altare del libero mercato. Il capitalismo poteva cioè essere salvato solo uccidendo la globalizzazione.
Il carnet dei pentiti della globalizzazione è abbastanza nutrito. Ci si può trovare il nome di Giulio Tremonti, convertito ai valori sempiterni del lavoro (salariato), della famiglia e della comunità territoriale, ma teorico di un rigore che ha come guardiano consapevole quell'Europa monetaria che pure molte responsabilità ha nell'aver determinato la situazione attuale. Ma si possono trovare anche altri nomi, poco noti in Italia, ma molto autorevoli nel loro paese, come Richard A. Posner, giudice della Corte Suprema statunitense per volontà di Ronald Reagan che ha mandato alle stampe un libro presentato come una seria e puntuale autocritica sul suo pensiero a favore della globalizzazione. Già il titolo è tutto un programma - Un fallimento del capitalismo, Codice edizione, pp. 218, euro 21 -, anche se le conclusione non lascia dubbi sulla volontà dell'autore di salvare proprio quell'american way of life minacciata proprio dalla globalizzazione. Con uno stile secco, a tratti algido, il giurista americano elenca tutti gli elementi che possono contribuire al crollo del capitalismo: la finanza liberalizzata, la cancellazione di fatto del diritto del lavoro, una modifica dei rapporti di forza nella società a favore delle imprese. Una volta individuate le cause che alimentano la crisi sociale, Posner sposta l'attenzione sul fattore determinante il declino dell'economia made in Usa: l'abdicazione dello stato-nazionale nel regolare l'attività economica.
La lettura del volume crea un certo spaesamento, quasi ci si trovi tra le mani il testo di un keynesiamo «radicale» o di un populista di sinistra europeo. L'aspetto più interessante non sta tanto nelle ricette che Posner propone - etica del lavoro, rispetto dei diritti dei lavoratori, un protezionismo light - bensì nella descrizione di come è cambiata la forma-stato statunitense in oltre vent'anni. Da questo punto di vista, sviluppa una tesi in base alla quale il neoliberismo non è una vera e propria teoria economica, bensì una sorta di ideologia tesa a legittimare il capitale finanziario. Da qui le decisioni, prese da diverse amministrazioni, compresa quelle del democratico Bill Clinton, che hanno modificato le leggi che hanno retto la società statunitense dagli anni Trenta.
I predatori della ricchezza sociale
Fosse solo questo, il neoliberismo potrebbe essere consegnato alla storia come una breve parentesi dello sviluppo capitalistico, ridimensionando il potere del capitale finanziario. Ma se una cosa emerge dalla crisi economica attuale è il forte intreccio tra produzione e finanza, al punto che ricordare quell'invito, anzi metodo, a analizzare il capitale come una totalità è un buon antidoto al rumore di fondo prodotto da chi, invece, continua a invocare le virtù della economia reale (capitalistica) contro il carattere parassitario della finanza.
A differenza, però, dal passato la finanza non è solo un aspetto del capitalismo, bensì un vero e proprio strumento di governance delle società contemporanee. La cosiddetta finanziarizzazione della vita sociale, che ha carattere predatorio della ricchezza sociale prodotta, è il vero fattore che tiene il centro della scena, sebbene Posner non riesca a coglierlo perché smarrito dal fatto che, sebben ne sia uno dei custodi, l'anglosassone rule of law sia riuscita a demolire l'impianto normativo emerso dalla Grande Depressione degli anni Trenta del Novecento che ha garantito al capitalismo trenta anni di sviluppo economico ininterrotto.
L'irreversibilità della globalizzazione costringe a misurarsi con le caratteristiche del capitalismo contemporaneo, dunque a frequentare gli atelier contemporanei della produzione. Una discesa negli inferi del lavoro salariato che ha le tappe nell'industria culturale, nella ricerca scientifica, nell'università, nella produzione di software, nelle fabbriche globali, tutti siti produttivi dove l'intreccio tra finanza e produzione è fattore costitutivo. E dove è altrettanto immanente la finanziarizzazione dei servizi sociali. Ed è questo lo scenario in cui collocare il volume dell'economista Dani Rodrick La globalizzazione intelligente (Laterza, pp. 380, euro 20).
Dani Rodrick è un liberal che già negli anni Novanta del Novecento aveva messo in dubbio che il Washington consensus potesse garantire stabilità e sviluppo economico. E sulla scia di quel ragionevole pessimismo invita a guardata la realtà prodotta in dieci anni di deregulation. Precarietà diffusa, degrado ambientale, guerre commerciali o militari. E tuttavia per affrontare questi problemi non c'è possibilità di un ritorno al passato. La strada da perseguire, sostiene Rodrick, è una ridefinizione dei compiti dello stato nazionale e degli organismi sovranazionali, come la World Bank, il Fondo monetario e il Wto all'interno di una cornice di una «democrazia cosmopolita» incardinata sul protagonismo di una società civile globale e di un rinnovato compromesso tra capitale e lavoro. Tesi non molto lontana da quella auspicata da un altro liberal statunitense, Robert Reich, nel libro Aftershock (Fazi editore, pp. 208, euro 18). Questi ultimi due studiosi invocano inoltre una sorta di ingegneria istituzionale per raddrizzare il legno storto della globalizzazione: Rodrick per garantire la tenuta del legame sociale attraverso una politica redistributiva gestita con attori sociali e politici locali e globali; Reich per attenuare le diseguaglianze sociali individuando nel ceto medio il collante della società statunitense.
In ogni caso, la globalizzazione rimane sempre un «significante vuoto» che può essere riempito come meglio si crede. Da questo punto di vista l'opera di Luke Martell pubblicata da Einaudi costituisce uno dei migliori strumenti per comprendere le diverse valenze che sono state date al termine, all'interno di una prospettiva che non coinvolge solo l'attività economica, ma anche il ruolo dei media come produttori di legittimità alla globalizzazione, ma anche come cloud informative dove i movimenti sociali esprimono punti di vista antagonistici a quelli dominanti.
Rimane tuttavia inevasa una domanda implicita in tutti i volumi qui segnalati: quale futuro della globalizzazione? La cronaca continua a restituire un panorama desolante della crisi economica se l'attenzione si concentra sull'Europa o sugli Stati Uniti. Diverso è il caso per paesi come la Cina, l'India, il Brasile e l'America Latina, dove l'impatto della crisi è stato sicuramente minore se non irrilevante nella vita di quei paesi. Tuttavia, per quanto riguarda il vecchio continente e gli Usa, il paradosso dominante è che l'uscita dalla crisi della globalizzazione liberista avviene sotto gli auspici di un liberismo ancora più radicale.
La questione, ad esempio, del debito sovrano viene usata per dare avvio a un processo di privatizzazione di alcuni servizi sociali che era stata respinta nell'ambito del Wto non più di un lustro fa. Allo stesso tempo la completa deregolamentazione del mercato del lavoro è assunta come obiettivo strategico da molti dei governi del vecchio continente, indipendentemente dalle direttive a favore di misure a tutela del lavoro cosiddetto atipico prese dagli organismi di governo di un Europa monetarista al fine di «temperare» gli effetti delle politiche liberiste del decennio precedente.
La gabbia da distruggere
È questa dunque la posta in gioco. Uscire dal liberismo in crisi accentuandone le caratteristiche? Oltre che socialmente e culturalmente da avversare, è una possibilità che riprodurrebbe gli stessi meccanismi che hanno portato alla crisi. Ma è altresì dubbio che se ne possano correggere alcuni aspetti, lasciando inalterato l'insieme, come molti degli autori qui segnalati propongono. E sicuramente non è auspicabile attendere che la nottata passi, sperando nell'insuccesso dei governi conservatori o di destra e al ritorno di coalizioni progressiste capaci di riprendere quel percorso, seppur temperato, che ha portato proprio alla crisi attuale. E altrettanto risibili sono rimedi omeopatici come una deglobalizzazione che ripristini la vecchia e cara sovranità nazionale o una decrescita che legittimerebbe l'impoverimento relativo che ha colpito il vecchio continente e gli Stati Uniti. Occorre dunque tornare a quella critica dell'economia politica che assuma il capitale come rapporto sociale nella sua totalità. Totalità è certo una nota stonata per un pensiero critico che voglia innovare un corpus teorico che di totalità è quasi rimasto soffocato. Ma è un rischio che va corso, per rompere quella gabbia d'acciaio che legittima l'appropriazione privata di una ricchezza prodotta socialmente.