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Diego Fusaro
Globalizzazione e sradicamento, l’economia ci toglie tutto
1 Marzo 2017
Critica
«Singoli Stati, come pure singoli individui, potranno certo andare in miseria, ma non di meno prevarrà, in grazia di un’insondabile provvidenza immanente, l’equilibrio generale del mercato»

«Singoli Stati, come pure singoli individui, potranno certo andare in miseria, ma non di meno prevarrà, in grazia di un’insondabile provvidenza immanente, l’equilibrio generale del mercato». Il FattoQuotidiano, blog di Diego Fusaro, 1 marzo 2017 (c.m.c.)
Con le parole di Deleuze e Guattari, «le multinazionali fabbricano una sorta di spazio liscio deterritorializzato» (Mille piani), ciò che siamo soliti definire “mondializzazione”. Modelli insuperati dell’“azienda irresponsabile” (Luciano Gallino), le imprese multinazionali e delocalizzate sono ovunque e in nessun luogo: sono ovunque, allorché si tratta di trovare in ogni angolo del pianeta manodopera da sfruttare a basso costo e di vendere prodotti (secondo le due leve della delocalizzazione della produzione e dell’immigrazione di massa come nuova deportazione di masse di lavoratori da sfruttare ad libitum); e sono in nessun luogo, quando v’è da dichiarare i profitti delle vendite, da pagare le tasse e da rispettare la dignità del lavoro umano e le condizioni dell’ambiente.

Coessenziale al capitale fin dal suo momento genetico, la tendenza allo sradicamento e alla deterritorializzazione giunge a compimento, per un verso, con la mondializzazione come dinamica di riconfigurazione del pianeta come unico mercato omologato e senza distinzioni; e, per un altro, con l’instaurazione del dominio post-borghese della nuova aristocrazia finanziaria, avversa a ogni forma di vita etica radicata simbolicamente e materialmente. La cattiva universalità del mondialismo può dirsi realizzata, nell’inveramento della logica già delineata da Adam Smith nella Ricchezza delle nazioni: «Il possessore di capitali è propriamente un cittadino del mondo e non è necessariamente legato a nessun paese particolare. Egli sarebbe pronto ad abbandonare il paese in cui è stato esposto a una indagine vessatoria per l’accertamento di un’imposta gravosa e trasferirebbe i suoi fondi in qualche altro paese dove poter svolgere la sua attività o godersi la sua ricchezza a suo agio».

Del resto, l’invisible hand teorizzata e magnificata da Smith non contempla alcuna territorialità o localizzazione, alcun radicamento o regionalità. Opera negli spazi globali, nelle distese virtualmente infinite del mercato denazionalizzato, poiché la sintesi spontanea degli egoismi – la nuova teodicea economica del moderno – fondata sulla moltiplicazione rizomatica degli interessi privatistici si produrrà su scala planetaria, nel piano liscio dello scambio senza frontiere e limitazioni.

Singoli Stati, come pure singoli individui, potranno certo andare in miseria, ma non di meno prevarrà, in grazia di un’insondabile provvidenza immanente, l’equilibrio generale del mercato. Si realizza così quello “sradicamento” che già Martin Heidegger – gigante oggi deriso e schernito da una tribù di pennivendoli e surfers del pensiero – aveva denunciato come cifra del tecnocapitalismo.

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